giovedì 19 maggio 2011

G8 Genova, nuovi inquietanti particolari

Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi. Manca una risposta, quella fondamentale: perché? Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi: un manifestante ucciso, circa 560 tra dimostranti e agenti feriti, almeno 25 milioni di euro di danni. Ma nessuno finora ha pagato e, complice la prescrizione dei reati, probabilmente nessuno pagherà mai: la violenza che in quel luglio 2001 si è impadronita di Genova resterà senza responsabili.
 
Sono passati dieci anni dal G8 che annichilì un movimento, capace di riportare alla politica masse senza tessera: una festa giovane, con cittadini d'ogni età e nazionalità, schiacciata dalle botte degli uomini in uniforme e dalla guerriglia urbana di una minuscola minoranza in tuta nera. Chi si è trovato prigioniero di quella bolgia feroce non ha più dimenticato.
Ora il decennale apre la corsa a ricordare: ci saranno memorie, celebrazioni e libri sul vertice che ha marcato in modo nefasto l'esordio del lungo governo della destra italiana. Il primo volume porta la firma dell'ideatore di quella kermesse nata per essere pacifica, Vittorio Agnoletto. Assieme a lui, Lorenzo Guadagnucci, un giornalista che da allora si è occupato a tempo pieno di quei giorni di fuoco e di sangue. In "L'eclisse della democrazia" (ed. Feltrinelli, 270 pagine,15 euro) offrono una ricostruzione dettagliata e inedita degli episodi più vergognosi. A partire dalle pressioni per ostacolare le indagini.
 
Perché quella del G8 sembra una storia semplice ma non lo è. Squadre organizzate di black bloc si infiltrano nei cortei, vanno all'assalto e provocano una reazione scomposta delle polizie che caricano alla cieca. Nella nebbia dei lacrimogeni, tutto diventa violenza. In uno degli scontri, un carabiniere spara e uccide Carlo Giuliani. E questo trasforma le strade in un campo di battaglia, dove ogni regola viene calpestata.
Nella caserma di Bolzaneto centinaia di persone subiscono torture fisiche e psicologiche. Fino al blitz nella scuola Diaz, concepito per gonfiare le statistiche degli arresti, che si è trasformato nella "macelleria messicana" con il pestaggio di 93 innocenti. Per Amnesty International è stata "una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente".
Chi lo ha permesso? Il Parlamento non ha voluto indagare: ai tempi del governo Prodi e della maggioranza di centrosinistra, i rappresentanti del popolo italiano se ne sono lavati le mani e hanno delegato tutto ai giudici. I corpi dello Stato invece hanno fatto quadrato. Ed è questa la parte più inquietante del saggio di Agnoletto e Guadagnucci: l'analisi di come la polizia sia stata contro la magistratura in ogni fase del procedimento.
 
Lo raccontano per la prima volta i pm che si sono occupati dell'inchiesta, a partire da Enrico Zucca che testimonia una "proposta indecente", gravissima dal punto di vista istituzionale: "Arriva dalla polizia una richiesta esplicita, una sorta di patto: voi rinunciate ad andare a fondo nelle inchieste sulla polizia, noi facciamo altrettanto nelle indagini sui manifestanti. La proposta ci è riferita in questi termini dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino. È decisamente rifiutata".
Lo conferma anche Patrizia Petruzziello, il magistrato che ha poi condotto l'inchiesta su Bolzaneto: "Si proponeva una sorta di pari e patta". Secondo i pm, il no alla proposta diede inizio a uno scontro frontale tra istituzioni che finora è rimasto relegato nelle aule di giustizia genovesi ma che invece richiederebbe una riflessione molto più alta sui poteri degli apparati statali nell'Italia del XXI secolo.
La spaccatura è arrivata fin dentro la procura, dove i sostituti sono stati costretti a firmare un documento per chiedere di indagare i funzionari che hanno guidato il raid nella Diaz. Zucca ricorda un clima di tensione crescente: "Proprio agli albori dell'indagine pervenne un messaggio oscuro e sibillino, nel senso che si vociferava che pezzi deviati della polizia, al di fuori di ogni controllo, stavano tramando e non avrebbero tollerato alcuna inchiesta.
 
Fu una voce poi non verificata, ma l'effetto intimidatorio, nella fase in cui erano in gioco le decisioni sulla stessa apertura di un'inchiesta e con le lacerazioni esistenti in procura, era garantito. Inoltre l'inchiesta si sommava ai normali carichi di lavoro. In procura eravamo 25 sostituti, ma non fu deciso di dedicarne alcuni a tempo pieno alle inchieste sul G8". La pressione arriva al culmine quando l'istruttoria punta sull'VII nucleo antisommossa, la "celere" romana passata dagli stadi all'irruzione nella Diaz: "Ci arrivò il messaggio di aspettare, di essere cauti: "Non riusciremmo a contenere eventuali reazioni"...".
I rapporti tra procura e Viminale sono diventati surreali: viene taciuto il nome di uno degli agenti con i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo, ripreso mentre bastona un giovane. Ricorda Zucca: "Nelle audizioni di De Gennaro e di Manganelli, attuale capo della polizia, facemmo presente il disagio procurato dal mancato chiarimento di alcune circostanze, per noi intollerabile e che gettava discredito sull'immagine dell'istituzione. Era un segno troppo evidente della mancata collaborazione".
 
Per Zucca con l'incriminazione di Gianni De Gennaro, accusato di avere spinto un questore a mentire, si va "allo scontro finale". In primo grado De Gennaro è stato assolto, in appello condannato a 16 mesi. Nel frattempo il prefetto è diventato il direttore di tutti i servizi segreti, primo dirigente a occupare l'incarico di massimo potere creato con la riforma dell'intelligence. E quasi tutti gli uomini in divisa coinvolti hanno fatto carriera: i meno fortunati - sottolinea il libro - sono quelli che in qualche maniera hanno collaborato con l'autorità giudiziaria.
Oltre all'allora numero uno della polizia, sul banco degli imputati sono finiti 29 agenti per la Diaz; 45 tra carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie e medici per "il lager" di Bolzaneto e 25 dimostranti per le devastazioni. La Cassazione deve ancora pronunciarsi, ma gran parte dei reati sono già prescritti. Di fatto non ci sono responsabili per quella che Amnesty ha definito "la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente".
E non si capisce nemmeno il perché di tanta violenza: è stata solo l'impreparazione delle forze dell'ordine, che non hanno saputo prevenire e fronteggiare i casseur in tuta nera?
 
Andrea Camilleri nell'introduzione al libro offre una lettura diversa: "Ho sempre sostenuto che per me il G8 è stato una sorta di prova generale, un tentativo di golpe da parte della destra che fortunatamente è andato fallito. Rimango convinto che nella cabina di regia di quei giorni oltre alla polizia e ai carabinieri ci fossero anche politici e credo, oggi più che mai, che il fallimento di quell'operazione abbia fatto cambiare parere circa la strategia da seguire in Italia a qualche alta personalità politica".
Le indagini non hanno dimostrato una regia politica. Ma dieci anni dopo, resta aperta "la ferita", - come si intitola un altro saggio dedicato a quei giorni, a firma di Marco Imarisio e in uscita sempre per Feltrinelli - quella che ha infranto il sogno dei no global: i manganelli di Genova hanno spezzato la fiducia nello Stato e hanno allontanato un'intera generazione dalla politica. Una ferita che resta un problema fondamentale per il futuro della democrazia nel nostro Paese.

Gianluca Di Feo per "l'Espresso"

Spagna in rivolta

Le mobilitazioni di massa di questo 15 maggio (15M) spagnolo hanno visto oltre 130 mila persone scendere in piazza in 60 città del paese, per esigere “un’uscita sociale dalla crisi capitalista”: più di 40mila persone hanno animato le strade di Madrid, diverse migliaia a Barcelona, e poi Malaga, Alicante, Murcia, Valencia fra le (tante) altre.
Nell’aria gli stessi slogan che riecheggiano ormai da tempo nelle piazze di tutta Europa (e oltre): “Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri!”, “Questa crisi non la paghiamo” e “Basta corruzione, passiamo all’azione”! Voci univoche di un soggetto politico multiforme, il cui obiettivo comune sta nella critica e nell’opposizione al capitalismo e ai suoi effetti devastanti su individui e territori, così come nella denuncia della corruzione politica e nella difesa dei diritti sociali.
Lanciate dalla piattaforma politica Democracia Real Ya, nata pochi mesi fa dal coordinamento di vari gruppi e associazioni, tra cui il movimento universitario Juventud sin futuro, le manifestazioni hanno visto scendere in piazza disoccupati/e, precari/e, lavoratori e studenti, “indignat* organizzat*” in un movimento intergenerazionale e trasversale dal punto di vista sociale e politico. La piattaforma, sul cui sito è visibile un manifesto che ne espone obiettivi e prospettive, è nata come iniziativa sul web proprio dal dissenso alle “riforme antisociali” (come la recentemente approvata Legge Sinde, atta a “difendere la proprietà intellettuale” sul web) ed in contrapposizione ai modelli corrotti della classe politica e finanziaria al potere: speculatrice, totalmente cieca rispetto ai bisogni reali della popolazione e rispetto alle istanze sociali di casa, lavoro, cultura, salute, educazione.Colapsado_centro_Barcelona
L’imminenza delle elezioni amministrative, che il prossimo 22 maggio riguarderanno più di 8000 comuni spagnoli – e delle autonomiche, per 13 delle 17 comunità autonome – fa sì che il dissenso venga riportato con forza sulla classe politica in toto, declinando questo “Qué se vayan tod@s” in uno specifico “No les votes!” (non votarli!), un appello all’astensionismo che riunisce nello stesso disprezzo PP, PSOE e qualsiasi altro partito, perché “senza il nostro voto non sono nulla”.
Senza casa, senza lavoro, senza pensione, senza PAURA!” è uno degli slogan più ripetuti da questo movimento, che trova le proprie fondamenta nella rete sociale allargata fra realtà molteplici, e nei social network il proprio altoparlante - Facebook e Twitter in testa. I diversi livelli di lotta e organizzazione si intrecciano, ed il seguito che gli eventi stanno avendo in rete (#spanishrevolution e #acampadasol erano Trending Topics mondiali nella giornata di ieri) viene efficacemente riportato sulla piazza a livello di partecipazione e determinazione. L’intelligenza di questo movimento sta proprio nella capacità di servirsi degli strumenti della rete sfruttandone al massimo le capacità organizzative e comunicative, unitamente al lavoro politico di (ri)costruzione di legami sociali contro l’atomizzazione delle relazioni. Ne esce riconfigurata anche la dimensione spaziale: gli spazi pubblici tornano ad essere luoghi di aggregazione, di riappropriazione e partecipazione politica.
Così la manifestazione di domenica a Madrid è spontaneamente sfociata nell’occupazione della centralissima Plaza di Puerta del Sol, dove circa un centinaio di manifestanti hanno dato vita un presidio permanente trasformandola in un luogo assembleare, con la volontà di rimanere sul posto fino alle elezioni del 22M. “Dalla Puerta del Sol si organizza la resistenza per la dignità e il diritto a decidere del nostro futuro” scrive l’utilizzatore di uno dei tanti spazi in rete che raccontano la protesta. Fra gli obiettivi primari della acampada madrilena anche la scarcerazione immediata dei 19 arrestati in seguito ai disordini della manifestazione del pomeriggio, momenti che hanno visto i manifestanti praticare blocchi stradali per le vie del centro (in zona Tirso de Molinas) e la polizia utilizzare proiettili di gomma e caricare anche i manifestanti che stavano seduti a terra sulla Gran Vìa.
Incidentes_MadridIl silenzio imbarazzante dei media generalisti sugli avvenimenti viene ben compensato dalla narrazione sui social network, dove naturalmente la protesta viaggia veloce per la rete; oltre ad affollare sempre più la piazza madrilena i twitter riescono ad organizzare in tutto il paese altre “acampadas permanentes”: Barcellona, Valencia, Siviglia, Granada, Bilbao fra le altre (tutte rintracciabili su twitter tramite gli hashtag #acampadavalencia, #acampadagranada, etc).
“L’idea iniziale era concentrare il maggior numero di persone in un luogo importante della città, tenendo conto dell’efficacia che questa strategia ha avuto nelle rivolte di alcuni paesi del mondo arabo” così uno dei manifestanti madrileni, riportando all’attenzione quello che è un sentimento comune: la vicinanza e la complicità con le rivoluzioni dell’oltre Mediterraneo, ma anche con le più “modeste” mobilitazioni europee - Italia, Grecia, Portogallo le più menzionate; con un occhio di riguardo al (forse) meno conosciuto “modello islandese”.
Intanto nel pomeriggio di oggi arriva la notizia del rilascio di tutti gli arrestati, su cui pendevano le accuse di resistenza e danneggiamento durante il corteo di domenica. Dalle 12 di questa mattina un presidio formato da centinaia di persone si era riunito sotto il tribunale per chiederne l’immediata liberazione.
Nel frattempo, nonostante lo sgombero subito questa notte (fra lunedì e martedì) dall’acampada di Madrid i manifestanti rilanciano dandosi appuntamento nella stesso luogo alle 20 di questa sera, per riprendersi la piazza e ribadire la propria determinazione a proseguire la lotta, fino alla messa in atto del cambiamento. La piazza al momento è vigilata da decine di agenti, con l’ordine di impedire qualsiasi accampamento durante la nottata. “Ci hanno cacciato dalla Puerta del Sol, ma in quanto luogo pubblico, trasformato in assemblea aperta e partecipativa, continua ad essere nostra”. Mentre una rete di avvocati si è già organizzata per offrire assistenza legale a livello nazionale, resistono e si moltiplicano anche le acampadas in molte altre città della Spagna. Con un occhio al 22 maggio e uno al futuro.

La Sardegna contro i radar. Occupati tutti i terreni per impedire i cantieri!

Diciotto Radar dislocati in diverse parti dell'Italia faranno dell'Europa sempre più una fortezza. Radar israeliani anti-immigrati che avranno un raggio di 50 chilometri e che potranno intercettare barche di piccole dimensioni e ad alta velocità. L'Europa si “protegge” e lo fa appaltando i lavori ad “Almaviva spa” del gruppo Finmeccanica sotto la direzione e la gestione della Guardia di Finanza. Lavori per milioni di euro che andranno ad aumentare la fetta di servitù militari in Italia.
 
Quattro di questi Radar anti-immigrati sono in procinto di essere costruiti in una terra dove sono concentrate 66 basi su 100 dell'intera Italia. Una terra dove le contaminazioni da uranio impoverito e di altri metalli pesanti ha obbligato a porre i sigilli ad ampie zone di terra dove pastori o contadini non possono più transitare per il lavoro di tutti i giorni.
La terra di cui stiamo parlando e di cui da tempo si sente parlare sempre di più per le continue scosse tellurico-sociali e' la Sardegna.

Probabilmente per questa continua usurpazione del territorio da parte di aziende straniere e Ministero della Difesa (ma anche da parte di NATO e USA), la storia di questi Radar sta prendendo una piega diversa rispetto al resto dell'Italia. Da più di una settimana i terreni dove era imminente la costruzione dei quattro radar sono stati occupati 24 ore su 24 dalla popolazione locale (sindaci compresi) impedendo l'accesso a ruspe, operai e forze dell'ordine.
Siti internet e gruppi su facebook stanno nascendo per informare e organizzare la protesta. Basta cercarli digitanto i nomi delle zone interessate dai lavori:
  • Capo Sperone a Sant'Antioco
  • Capo Pecora a Fluminimaggiore
  • Argentiera in territorio Sassarese
  • Santa Vittoria a Tresnuraghes

Terza Intifada

Anche a Gaza, come in Siria, Egitto e Giordania, la giornata della Nakba di quest'anno è stata segnata da imponenti manifestazioni ai confini di Israele che chiedevano il diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra, e da una violentissima repressione messa in atto dall'esercito israeliano. Il 15 di maggio è il giorno della Nakba (“catastrofe” in arabo), l'anniversario della pulizia etnica della Palestina da parte delle forze di occupazione sioniste. Solo a Erez, striscia di Gaza, le forze di occupazione hanno causato 105 feriti e un morto.

Verso le 10.30 diverse migliaia di persone si sono recate al check point di Erez ed alle 12 si sono avvicinate al confine israeliano. È stato sorpassato il primo check point gazawo, è stato raggiunto l'inizio del tunnel che porta al territorio israeliano, e ci si è avviati per la strada che costeggia il tunnel. Il senso di questa manifestazione, come delle altre agli altri confini con Israele, era quello di chiedere il diritto al ritorno. Durante la Nakba centinaia di maigliaia di palestinesi sono stati deportati dai loro villaggi e costretti a vivere in terre straniere: solo a Gaza i 75% della popolazione è composta da rifugiati.

Mentre una folla di alcune migliaia di persone si avviava per quella strada, 4 granate sono state lanciate da un carro armato posizionato sulla destra per atterrare alla sinistra dei dimostranti. Il suono delle granate, quando sono vicine, scuote dentro dalla paura, paura che se le granate fossero atterrate nella folla dei manifestanti, avrebbero provocato una strage. Ma la paura, si sa, non riesce a fermare questo popolo fiero, questi uomini, donne e ragazzini. Mano a mano che la folla si avvicinava da due torrette di controllo posizionate vicino al confine le forze di occupazione hanno iniziato a sparare. Spiega Saber: “Sulla torre di fronte a noi c'è un cecchino: quello non sbaglia un colpo, ogni proiettile che spara raggiunge esattamente il bersaglio. Sulla torretta a sinistra invece è montata una macchina a controllo remoto che spara proiettili di calibro molto più grosso, quelli sono illegali secondo la legge internazionale.” E il pericolo aggiuntivo veniva dal fatto che nella linea d'aria tra la torretta a controllo remoto ed i manifestanti c'erano dei cespugli, che impedivano parzialmente o completamente la visuale e che quindi facevano si che l'arma non potesse garantire di colpire esattamente l'obiettivo che chi la manovrava si aspettava di colpire. Sotto quella collina e tra quei cespugli ragazzi palestinesi si nascondevano per riuscire ad issare la loro bandiera in cima alla collina, per dimostrare ed affermare di nuovo che quella è la loro terra. I cecchini non avevano pietà.

Nessuno tra i palestinesi portava armi, nessuno rappresentava una reale minaccia per Israele. La manifestazione era la prima unitaria da quando sono stati firmati gli accordi per l'unità nazionale: sebbene la bandiera più diffusa fosse quella palestinese, c'era chi portava segni evidenti di Fatah, di Hamas e del PFLP. Tutte le fasce della popolazione erano rappresentate, c'erano diversi bambini e donne. Nalan, ragazza di ventun anni, per esempio racconta: “io volevo spingermi più avanti in prima fila, perchè è la mia terra, e volevo stare di fronte. Ma i miei amici mi tiravano indietro e volevano tenermi più al sicuro...”.

Ricordo una donna ferita, intorno ai 30 anni, svenuta e che nella caduta ha sbattuto la testa contro un muretto. Ricordo che in generale era difficile trovare 10 minuti di pausa tra gli spari. Verso le 4, alcuni soldati (probabilmente sei) sono usciti dalla porta del confine ed hanno iniziato ad usare anche lacrimogeni di un gas tossico, pericolosi sia per inalazione sia perchè venivano lanciati in aria e potevano facilmente cadere in testa a qualcuno. Ad un certo punto sento uno schianto -forte da far male al timpano- alla mia sinistra, e, voltandomi, vedo un uomo che sollevava il braccio con una mano inerme ed un grosso buco al posto del polso, si vedeva la carne ed il sangue sgorgava a fiotti. I feriti venivano portati via dai compagni prendendoli per le gambe e le spalle. Uno di questi lo ricordo che si teneva una mano sulla guancia sanguinante, non so se fosse stato colpito alla faccia da un proiettile o da una scheggia ma perdeva molto sangue. Le ambulanze fortunatamente potevano avvicinarsi al luogo delle violenze. Ho imparato che in arabo sangue si dice fosfor, perchè chiunque indicasse la mia maglia lo diceva: un uomo maciullato dai cecchini israeliani vicino a me ha imbrattato la mia maglietta di sangue e mi ha schizzato addosso briciole di carne. Il tuo sangue è il mio sangue, la tua lotta la mia lotta, fratello.

Secondo il Palestinian Center for Human Rights il numero totale dei feriti è 105, tra cui 31 bambini e 3 donne, e 3 giornalisti. Uno dei giornalisti, colpito da una scheggia alla spina dorsale, è rimasto paralizzato. E poi c'è un morto, un ragazzino di 16 anni. Sono stati portati in tre diversi ospedali della striscia, e, incredibilmente, alcuni dei feriti lievi dopo venire medicati in ospedale tornavano in manifestazione. Altri, preferivano rimanere al confine piuttosto che farsi medicare: ho l'immagine di un ragazzo con una gamba ferita, i pantaloni strappati dalla probabile scheggia che lo ha raggiunto e sporcati di sangue, con una bandiera legata alla gamba perché preferiva rimanere in manifestazione piuttosto che farsi medicare.

Saber, entusiasta, alla fine della manifestazione esclama: "spero che ora i media e l'occidente si rendano conto che non siamo violenti, che non siamo terroristi come ci dipingono. Spero che
le cose cambino."
Questi sionisti possono sparare da tutte le torrette del confine e da tutti i potenti carri armati che hanno, i manifestanti hanno dimostrato di non volersene andare. Possono continuare a sequestrare la barche ai pescatori, a sradicare ulivi, a uccidere donne bambini e uomini. Ma con tutte le loro corazze, muri e modernissime armi tecnologiche non riusciranno a sfiancare la volontà di resistere di un popolo che resiste da 63 anni, di un popolo che non abbandona la sua terra, di un popolo che vincerà perchè se non si è ancora arreso non si arrenderà mai.
 

sabato 14 maggio 2011

“La vedi quella terra li? Quella terra è mia e non ci posso andare.”

L'8, il 9 ed il 10 di maggio sono stati 3 giorni di raccolta del grano per alcuni contadini di Khuza'a, villaggio vicino al confine con israele nel sud della striscia di Gaza. Per tre giorni essi si sono recati nei campi, partendo molto presto la mattina e raccogliendo i frutti della loro terra. Per 3 giorni dalle torrette automatizzate le forze di occupazione israeliane hanno sparato e per tre giorni i contadini hanno continuato a raccogliere il grano, senza permettere a chi sparava dalle torrette a controllo remoto di impedire loro di recarsi alla propria terra.

L'area dove i contadini, insieme con 3 attivisti internazionali dell'ISM e 5 attivisti palestinesi si sono recati si trovava a circa 450 metri dal confine. Prima della seconda intifada qui venivano coltivati angurie e meloni, c'erano alberi da frutto ed olivi. “venivamo qui a fare barbecue, festeggiare e rilassarci... le jeep israeliane passavano in lontananza ma non ci disturbavano, ci lasciavano in pace.” racconta Akhmad. Oggi gli alberi sono stati sradicati, le piante distrutte. L'unica cosa che si riesce a coltivare, perché non richiede attenzioni continue, è il grano. Però anche il grano necessita di diverse ore di lavoro per essere raccolto, ed i cecchini si divertono a terrorizzare i contadini in queste ore.

L'8 di maggio sui campi oltre agli attivisti erano presenti inizialmente 8 agricoltori, per lo più donne, ma anche un bambino di 13 anni ed una bambina di 7 anni, tutti fratelli e sorelle di una delle famiglie anNajjar risiedenti nel villaggio. Stavano nei loro 10 dunum di terra raccogliendo il grano giallo oro in diverse fascine, quando anche i vicini, svegliatosi, hanno pensato che la presenza di attivisti (stranieri e non) potesse proteggerli nel lavoro, ed hanno deciso si allontanarsi più del solito per raccogliere erbe da dare a mangiare agli animali. Dove finiscono i campi di grano il terreno è incolto e solcato da dune e fossi causati dai bulldozer israeliani, crescono cespugli spinosi e piccole piante che sembrano secche, ma che sono un buon mangime per asini e pecore. Una donna chinata a raccogliere queste erbe alza il volto, allunga il braccio e punta il dito verso una duna a poche decine di metri: “la vedi quella terra li? Quella terra è mia e non ci posso andare.”
E dalle torrette, le forze di occupazione israeliane non hanno tardato a ricordare chi ha il potere di decidere quali terre possano o no coltivare questi contadini: si sono uditi degli spari in aria, divisi in 2 raffiche tra le 7.40 e le 8.30. Prima delle 9:00, improvvisamente e senza preavviso, 3 proiettili sono atterrati a 50 metri o meno da chi stava lavorando la propria terra. Quando qualcuno spara in aria si sente solo un colpo, ma se il proiettile viene nelle tua direzione è possibile sentire il sibilo, ed il colpo dell'atterraggio. Il terreno era sabbioso e quindi, dopo i sibili, si sono levate 3 nuvole di polvere. Vicine, troppo vicine a un gruppo di quasi 20 civili che lavorava in maniera pacifica. Qualche decina di minuti dopo un uomo, inviperito, interrompe la sua raccolta dell'erba per gli animali e indica al di la del confine, dove un trattore sta arando un terreno: “guarda, gli israeliani possono coltivare indisturbati. Noi, invece, se usciamo qui fuori ci sparano contro!”.

Il secondo giorno anche un altro gruppo, sempre legato alla famiglia allargata anNajjar, ha iniziato a raccogliere il grano nella terra vicina, anch'essa che si estende su un'area di 10 dunam. Quindi in tutto erano presenti più di 10 contadini intenti a raccogliere il grano e qualche donna che raccoglieva erbe. Ma quanto possono rendere 10 dunam di terra? Akhmad anNajjar prova a quantificarlo: “in passato ci portavamo a casa 50-60 borse da un kg di grano, adesso ne riusciamo a fare tra le 10 e le 20: non riusciamo a prenderci cura della terra perchè non possiamo raggiungerla, e coltivandola sempre a grano per tanti anni di seguito si impoverisce:la dimensione de chicco è molto molto più piccola di quella che era 10 anni fa!”. Dalle torrette di controllo hanno sparato verso le 7.30 e verso le 8, il movimento di jeep e carri armati al di la del confine si cominciava a fare insistente. Il terzo giorno jeep e carri armati hanno continuato a spostarsi incessantemente, alzando nugoli di polvere in quella terra che oggi è riconosciuta come israeliana. Gli spari non sono mancati. Un uomo ci ha spiegato: “tutti i giorni le jeep israeliane si spostano e fanno i loro balletti al di la della rete. Tutti i giorni sparano. Però quando c'è presenza di internazionali sparano un po' meno.”

Khuza'a è un villaggio di contadini che si trova al sud della striscia di Gaza, nel governatorato di Khan Younis. Il centro di Khuza'a si trova a circa un km dal confine, mentre circa l'80% delle terre coltivabili (per un totale di 2000dunam) si trova in aree dove è alto il rischio di essere colpiti dai proiettili israeliani o in zone in cui l'entità sionista ha unilateralmente proibito l'accesso, la cosiddetta “buffer zone”. Moltissimi dunam non sono possono affatto essere coltivati, e l'accesso stesso ad alcune terre è stato ostruito dalle forze di occupazione. Secondo un rapporto dell'ONU, in tutta la striscia di Gaza le aree coltivabili che rientrano nella “zona ad alto rischio” comprendono il 35% delle terre coltivabili dai palestinesi, e non sono rari i casi di contadini feriti anche gravemente od uccisi mentre si recavano a coltivare la propria terra.


Akmad spiega perchè ancora e di nuovo nonostante tutto lui e la sua famiglia si recano li a raccogliere il grano: “Vogliamo mangiare, vivere e fare una vita normale. Questo è un nostro diritto, questa è la nostra terra, non ce ne andremo, non abbandoneremo i nostri campi, anche se Israele continua a sparare e cercare di intimorirci.”

Grazie Silvia
http://libera-palestina.blogspot.com/)


mercoledì 11 maggio 2011

Comunicato di solidarietà ai compagni di Firenze

78 indagati, 22 misure cautelari, nello specifico 5 arresti domiciliari e 17 obblighi di firma. È questo il prodotto della retata realizzata il 4 maggio a Firenze. Gli attori sono Digos, Ucigos e AISI, vale a dire tutti gli apparati statali dediti più nello specifico alla repressione. 
I capi d’imputazione sono diversi e svariati. Il più assurdo è sicuramente quello di “associazione a delinquere”: sminuire il conflitto politico al grado di delinquenza comune è il chiaro segno della volontà delle forze della repressione.
Al centro dell’attacco c’è proprio il conflitto. 
In una società che si vorrebbe senza tensioni sociali, in cui tutti i soggetti istituzionali ed affini parlano di pace e armonia sociale nonostante viviamo un periodo di durissimo attacco ai diritti, alle condizioni di vita e alle prospettive future, bisogna cercare di mettere a tacere le voci e fermare i corpi di chi parla e pratica il conflitto. Ed allora colpire in primis il movimento studentesco, che è stato capace di mettere in campo durante lo scorso autunno una determinazione ed una radicalità che hanno sorpreso molti in tutta la penisola, ponendosi anche come interlocutore per lotte che trascendono gli angusti confini dei nostri atenei, può diventare una priorità.
Per essere più efficaci e per essere sicuri di riuscire ad isolare hanno preferito agitare quello che ormai è  “lo spauracchio” degli anarchici”, sminuendo un’ideologia ed equiparandola a qualcosa di non ben definito, ma di fortemente pericoloso; spauracchio messo in scena dagli organi di stampa, secondo l’ormai noto canovaccio di “Sbatti il mostro in prima pagina”. 
Sarebbe ben più difficile suscitare un sentimento di condanna se si parlasse di giovani e giovanissimi, fra cui ci sono, ovviamente, sia anarchici che non, per lo più studenti, e se si esponessero le ragioni, le motivazioni profonde, che hanno fatto sì che per mesi, giorno dopo giorno, fossimo nelle strade e nelle piazze per contrastare la “riforma Gelmini”, il paradigma del “piano Marchionne”, la privatizzazione dell’acqua, la distruzione del welfare. 
In quei mesi, nelle aule universitarie e in qualunque luogo ci siamo incontrati, abbiamo provato ad immaginare traiettorie diverse, un futuro che fosse altro da quello che ci vorrebbero cucire addosso. E abbiamo provato a mettere in pratica ciò che ci dicevamo, ciò che veniva fuori dai tanti momenti di confronto e anche di scontro che abbiamo avuto l’intelligenza e la fortuna di coltivare. 
 Con quest’operazione repressiva si vorrebbe negare la più intima essenza di tutto ciò: si colpisce a Firenze, ma il colpo è avvertito da ognuno di noi, nelle nostre lotte e nelle nostre città.
E, poiché oggi è più evidente che i movimenti che esprimono conflitto danno fastidio ai governanti di un sistema sociale in crisi, indietro non torniamo.

Solidarietà alle compagne e ai compagni di Firenze!
No alla criminalizzazione delle lotte studentesche e dei movimenti sociali!


Assemblea Permanente Sociologia- La Sapienza, Roma
Assemblea Studenti Scienze Politiche – Milano
Aula Flex- Napoli
C.D.U.P Ingegneria- Napoli
C.P.O.A Rialzo
C.S.A Asilo Politico
C.S.O.A Spartaco
Collettivo 20 Luglio – Palermo
Collettivo Accademia In Lotta- Palermo
Collettivo Architettura Preoccupata- Napoli
Collettivo Aula R- Pisa
Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli
Collettivo Lavori in Corso – Roma
Collettivo No Pasaran - Caserta
Collettivo Politico Militanz- Cosenza
Collettivo Politico Scienze Politiche – Firenze
Collettivo Studentesco Cavese
Collettivo Studentesco Universtario- Salerno
Collettivo Studenti in Lotta- Catanzaro
Collettivo UniRC- Reggio Calabria
Coordinamento studenti medi bolognesi Fuj'h Accademia di Belle Arti – Napoli
L.S.A. Assalto- Cosenza
LINK- Napoli
Resistenza Universitaria – Roma
PrendoCasa- Cosenza 
Rete Studenti Salerno
Studenti Autorganizzati Campani- Napoli
Studenti Comunisti – Bologna
Studenti Federico II

lunedì 9 maggio 2011

Corteo Antifascista Napoli


Il 29 aprile può essere considerato il venerdì nero per la Napoli antifascista, medaglia d’oro alla Resistenza. In quella data la città ha visto i propri figli aggrediti, accoltellati, minacciati e, in seguito, denunciati e denigrati.

I fascisti che ci accoltellano stanno dalla stessa parte di chi inquina, devasta e sfrutta i nostri territori, di chi ci sfrutta sul lavoro, di chi ci impone disoccupazione e precarieta’. Chi ci accoltella sta dall’altra parte della barricata.
Sono anni che lottiamo per migliorare le condizioni di vita di tutti, sono anni che lottiamo contro questo stato di cose. Contro la disoccupazione, per la raccolta differenziata porta a porta, per una scuola e un’università pubblica, contro la devastazione dei nostri territori, contro i licenziamenti, per l’acqua pubblica e contro il nucleare.

Non ci fermeranno le lame dei fascisti né le denunce che ci piovono addosso.

E’ necessario ripartire dalle lotte che tutti i giorni portiamo avanti nei territori, nelle scuole, nelle università, nelle piazze! Ripartire per dare un segnale, per reagire, per dimostrare l’unità e l’orgoglio della nostra gente che non si arrende a morire di miseria, precarietà, munnezza e fascismo.
Facciamo appello a tutti gli studenti, ai disoccupati, ai precari, ai lavoratori, ai comitati e a tutte le individualità che ogni giorno resistono, per fare di giovedì 12, una giornata di mobilitazione in cui riprendere la parola e vivere da protagosisti la nostra città.

PER L’ACQUA PUBBLICA - RACCOLTA DIFFERENZIATA PORTA A PORTA - NO AL NUCLEARE - SCUOLA E UNIVERSITA’ PUBBLICA - CONTRO PRECARIETA' E LICENZIAMENTI - CONTRO IL RINCARO DEI BIGLIETTI - CONTRO LA REPRESSIONE

CONTRO FASCISMO, SESSISMO, RAZZISMO

Liberta’ per i precari bros
Libertà per Tonino
Liberta’ per tutti

mercoledì 4 maggio 2011

Pomigliano non si piega!

Si raccolgono adesioni per lo sciopero del 6 maggio a napoli.Bus Gratuito da salerno!
Info: laboratoriostudentesco@gmail.com

Processo Mastrogiovanni...

Comunicato–Stampa  del 3/5/2011

Dall’annotazione di servizio dei CC risulta che alle ore 8,30 del 31 luglio 2009  è richiesto il loro intervento perché il sindaco di Polllica ha  ordinato il T.S.O. nell’interesse di Francesco Mastrogiovanni, ma sempre dallo stesso documento risulta che i due medici prescritti dalla legge  vigente intervengono dopo le ore 8,30 del 31 luglio 2009.
Errore di verbalizzazione o altro?

Vallo della Lucania - Si è tenuta regolarmente la terza udienza del Processo che vede imputati diciotto tra medici e infermieri dell’ospedale di Vallo della Lucania (Sa) che nell’estate 2009 causarono la morte del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni di Castelnuovo Cilento (Sa).
Dei  Comandanti delle Forze dell’ordine che, durante la mattinata del 31 luglio 2009, parteciparono all’esecuzione dell’Ordinanza di Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.) emanata dal sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, si è presentato all’udienza di oggi solo il comandante della stazione dei Carabinieri di Pollica, il maresciallo Maffia. Il comandante della Polizia urbana di Pollica, Graziano Lamanna, ha preferito assentarsi ed è stato nuovamente convocato per la prossima udienza.

Il maresciallo dei CC ha confermato il contenuto della relazione di servizio redatta alle ore 15 del 31 luglio 2009, precisando che il documento acquisito agli atti del processo è stato redatto dai CC della stazione di Pollica che, come risulta dalla stessa relazione, sono intervenuti alle ore 8,30 del 31 luglio 2009 a seguito della richiesta di ausilio da parte del comandante della Polizia Urbana di Pollica, mentre il maresciallo Maffia giunge sul posto ove Francesco Mastrogiovanni viene sedato, intorno alle ore 12.
Nel rapporto si legge che alle “ore 8,30 odierne” il Sottotenente Graziano Lamanna della Polizia Locale del Comune di Pollica ha chiesto l’intervento dei carabinieri della stazione di Pollica  “…poiché il Sindaco di Pollica con ordinanza n. 53 del 31.7.2009 recante protocollo 6917 aveva ordinato il Trattamento Sanitario Obbligatorio in stato di degenza ospedaliera nell’interesse del sig. Mastrogiovanni Francesco….”
Ma sempre nella stessa relazione ed in palese contraddizione con quanto scritto all’inizio del documento,  i CC scrivono che le visite mediche prescritte dalla normativa vigente in materia di T.S.O.  (un primo medico che propone al sindaco la richiesta di T.S.O. ed un secondo che convalida la precedente richiesta) avvengono dopo le ore 8,30  e quando ormai Mastrogiovanni, inseguito dai carabinieri e dai vigili, si è tuffato in mare dopo essere giunto nel parcheggio del Villaggio Club Costa Cilento–Marina Piccola, situato nel territorio del Comune di San Mauro Cilento, dove stranamente viene eseguita un’ordinanza del sindaco di Pollica. Infatti si riferisce di un medico del 118 che interviene per primo durante la mattinata e poi di una dottoressa del Centro di salute Mentale di Vallo della Lucania successivamente.
Perché si scrive che alle ore 8,30 il sindaco ha già ordinato il TSO? Prima di comprimere i diritti della persona - soprattutto con l’intervento delle forze dell’ordine - non si deve attendere che sia perfezionata la procedura di legge?
Sempre nell’udienza di oggi è stata sentita con la massima attenzione la nipote di Francesco Mastrogiovanni, deceduto dopo essere stato legato mani e piedi senza nessuna interruzione per ottantadue ore al letto dell’ospedale di Vallo della Lucania.
La studentessa Grazia Serra, in compagnia del fidanzato Marco Garofalo, durante il pomeriggio del 3 agosto 2009 si recò presso il reparto di psichiatria per informarsi sulle condizioni di salute dello zio, di eventuali sue necessità e soprattutto per cercare di capire le motivazioni del ricovero presso il reparto di psichiatria. La studentessa – con la voce rotta dalla commozione - ha riferito che il comportamento del medico di turno le sembrò “poco professionale”, che andò via dal reparto senza aver potuto far visita allo zio e ancor più preoccupata per le risposte ricevute. Per il medico di turno venivano praticate le terapie richieste dal caso,  il ricoverato non aveva bisogno di niente,  la visita da parte dei parenti in quel momento non era funzionale alla terapia praticata e occorrevano una decina di giorni per superare la situazione. Ha ricordato anche che la madre si era rivolta al sindaco del Comune di Castelnuovo Cilento, dott. Eros Lamaida, medico nello stesso ospedale e sindaco del comune di residenza del fratello, che la aveva tranquillizzata dicendole che tutto si svolgeva regolarmente e poi, la mattina del 4 agosto, sarà lo stesso sindaco ad annunziarle telefonicamente e inaspettamente: «Franco non è più con noi ».
Marco Garofalo ha riferito che alle sue domande sulle modalità di alimentazione dello zio di Grazia, il medico chiese infastidito se fosse infermiere. Il ragazzo rimase sorpreso tanto da cessare il colloquio.
Grazia Serra rispondendo con precisione e determinazione alle numerose domande dei legali ha fatto cenno soprattutto alla ferita profonda facilmente visibile al polso sinistro dello zio ormai cadavere presso l’obitorio e ha parlato dello zio come di una persona colta, tranquilla, che amava leggere e amava il suo lavoro di insegnante, ricordando che quell’anno aveva insegnato fino alla chiusura della scuola proprio nella Scuola Elementare di Pollica, senza nessun problema.

Il presidente del tribunale, dott.ssa Elisabetta Garzo, su domanda, ha ammesso le televisioni locali a riprendere le fasi del processo che vede imputati diciotto persone, tra medici ed infermieri.
La prossima udienza si terrà alle ore 14 di martedì 17 maggio 2011. Saranno sentiti altri quattro testi indicati dal P.M., dott. Renato Martuscelli: il comandante della polizia urbana di Pollica e tre dei numerosi ricoverati presso il reparto di psichiatria, che certamente riferiranno della contenzione praticata senza umanità e sena nessun regolamento nell’ospedale di Vallo della Lucania non nel Medioevo ma nell’anno di grazia 2009.


Per il Comitato verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni
               Vincenzo Serra, Giuseppe Galzerano, Giuseppe Tarallo  

Vallo della Lucania, 3 maggio 2011, ore 21,00

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