venerdì 31 dicembre 2010

Caso Battisti tutti i dubbi su processi e condanne. Perchè il Brasile ha accolto il "mostro"

Riproponiamo un articolo di Carmillaonline dove si ripercorre tutti le contraddizioni e le ambuiguità delle condanne e dei processi avvenuti contro Battisti fra pentiti smentiti e sentenze "politiche". red. 30 dicembre 2010

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Perché Cesare Battisti fu arrestato, nel 1979?

Fu arrestato nell’ambito delle retate che colpirono il Collettivo Autonomo della Barona (un quartiere di Milano), dopo che, il 16 febbraio 1979, venne ucciso il gioielliere Luigi Pietro Torregiani.

Perché il gioielliere Torregiani fu assassinato?

Perché, il 22 gennaio 1979, assieme a un conoscente anche lui armato, aveva ucciso Orazio Daidone: uno dei due rapinatori che avevano preso d’assalto il ristorante Il Transatlantico in cui cenava in folta compagnia. Un cliente, Vincenzo Consoli, morì nella sparatoria, un altro rimase ferito. Chi uccise Torregiani intendeva colpire quanti, in quel periodo, tendevano a “farsi giustizia da soli”.

Cesare Battisti partecipò all’assalto al Transatlantico?

No. Nessuno ha mai asserito questo. Si trattò di un episodio di delinquenza comune.

Cesare Battisti partecipò all’uccisione di Torregiani?

No. Anche questa circostanza – affermata in un primo tempo – venne poi totalmente esclusa. Altrimenti sarebbe stato impossibile coinvolgerlo, come poi avvenne, nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta in provincia di Udine lo stesso 16 febbraio 1979, quasi alla stessa ora.

Eppure è stato fatto capire che Cesare Battisti abbia ferito uno dei figli adottivi di Torregiani, Alberto, rimasto poi paraplegico.

E’ assodato che Alberto Torregiani fu ferito per errore dal padre, nello scontro a fuoco con gli attentatori.

I media insistono nell'indicare Cesare Battisti come l'uccisore di Torregiani, spesso addirittura dicono che è stato lui a ferire Alberto e a ridurlo in sedia a rotelle. Alberto non rettifica mai, nemmeno per amore di precisione. Non rettifica mai nemmeno Spataro. Perché?

Ciò è inspiegabile. Gli assassini reali (Sebastiano Masala, Sante Fatone, Gabriele Grimaldi e Giuseppe Memeo) furono catturati poco tempo dopo l’agguato, e hanno scontato condanne più o meno lunghe.

Il procuratore Armando Spataro, ne Il Corriere della Sera del 23 gennaio 2008, dice che Battisti “giustiziò” Luigi Pietro Torregiani, reo di avere reagito con le armi a una rapina che aveva subito.

Anche questo è inspiegabile. La dinamica dei fatti è molto diversa, Spataro stesso la spiegò altre volte: Torregiani e un collega fecero fuoco, con revolver di grosso calibro, su chi stava rapinando la cassa del ristorante Transatlantico in cui cenavano con amici.

Perché dunque Cesare Battisti viene collegato all’omicidio Torregiani?

Anzitutto perché, per sua stessa ammissione, faceva parte del gruppo che rivendicò l’attentato, i Proletari Armati per il Comunismo. Lo stesso gruppo che rivendicò l’attentato Sabbadin.

Cos’erano i Proletari Armati per il Comunismo (PAC)?

Uno dei molti gruppi armati scaturiti, verso la fine degli anni ’70, dal movimento detto dell’Autonomia Operaia, e dediti a quella che chiamavano “illegalità diffusa”: dagli “espropri” (banche, supermercati) alle rappresaglie contro le aziende che organizzavano lavoro nero, fino, più raramente, a ferimenti e omicidi.

I PAC somigliavano alle Brigate Rosse?

No. Come tutti i gruppi autonomi non puntavano né alla costruzione di un nuovo partito comunista, né a un rovesciamento immediato del potere. Cercavano piuttosto di assumere il controllo del territorio, spostandovi i rapporti di forza a favore delle classi subalterne, e in particolare delle loro componenti giovanili. Questo progetto, comunque lo si giudichi (certamente non ha funzionato), non collimava con quello delle BR.

Il procuratore Spataro ha detto che gli aderenti ai PAC non superavano la trentina.

Gli indagati per appartenenza ai PAC furono almeno 60. La componente maggiore era rappresentata da giovani operai. Seguivano disoccupati e insegnanti. Gli studenti erano tre soltanto. La sigla PAC fu comunque usata da altri raggruppamenti.

Trenta o sessanta fa poca differenza.

Ne fa, invece. Cambiano le probabilità di partecipazione alle scelte generali dell’organizzazione, e anche alle azioni da questa progettate. Teniamo presente che, se le rapine attribuite ai PAC sono decine, gli omicidi sono quattro. La partecipazione diretta a uno di questi diviene molto meno probabile, se si raddoppia il numero degli effettivi.

Cesare Battisti era il capo dei PAC, o uno dei capi?

No. Questa è una pura invenzione giornalistica. Né gli atti del processo, né altri elementi inducono a considerarlo uno dei capi. Del resto, non aveva un passato tale – come ex ladruncolo e teppista di periferia, privo di formazione ideologica - da permettergli di ricoprire un ruolo del genere. Era un militante tra i tanti.

In sede processuale Battisti fu però giudicato tra gli “organizzatori” dell’omicidio Torregiani.

In via deduttiva. Secondo il dissociato Arrigo Cavallina, avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso del possibile attentato, senza esprimere parere contrario. Solo con l’entrata in scena del pentito Mutti – dopo che Battisti, condannato a dodici anni e mezzo, era evaso dal carcere e fuggito in Messico – l’accusa si precisò, ma ancora una volta per via deduttiva. Poiché Battisti era accusato da Mutti di avere svolto ruoli di copertura nell’omicidio Sabbadin, e poiché gli attentati Torregiani e Sabbadin erano chiaramente ispirati a una stessa strategia (colpire i negozianti che uccidevano i rapinatori), ecco che Battisti doveva essere per forza di cose tra gli “organizzatori” dell’agguato a Torregiani, pur senza avervi partecipato di persona.

Eppure, di tutti i crimini attribuiti a Battisti, quello cui si dà più rilievo è proprio il caso Torregiani.

Forse si prestava più degli altri a un uso “spettacolare” (si veda l’impiego ricorrente nei media di Alberto Torregiani, non sempre pronto, per motivi anche comprensibili, a rivelare chi lo ferì). O forse – visto chi ci governa e le proposte formulate qualche anno fa dal ministro Castelli, in tema di autodifesa da parte dei negozianti – era l’episodio meglio capace di fare vibrare certe corde nell’elettorato di riferimento.

Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della “simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” il secondo.

Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai giornali (numero e qualità dei delitti variano da testata a testata), al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha fornito dettagli sul caso – per meglio dire, un certo numero di dettagli – solo dopo che la campagna a favore di Cesare Battisti ha iniziato a contestare il modo in cui furono condotti istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva impedire che Battisti fosse estradato.

La simultaneità fra il delitto Sabbadin e quello Torregiani dimostra un’unica ideazione.

Ma andrebbe provato che Battisti partecipò effettivamente all’uccisione di Sabbadin. Inizialmente, il pentito Mutti incolpò Battisti di avere sparato al macellaio, e disse di non avere partecipato all’azione. Purtroppo per lui, il militante dei PAC Diego Giacomin si dissociò e rivelò di essere stato lui stesso a uccidere il negoziante, in compagnia di Mutti. A quel punto – solo a quel punto – Mutti dovette ammettere la sua presenza e declassò Battisti al ruolo di complice (2).

Comunque, quello a Cesare Battisti e agli altri accusati del delitto Torregiani fu un processo regolare.

No, non lo fu, e dimostrarlo è piuttosto semplice.

Perché il processo Torregiani, poi allargato all’intera vicenda dei PAC, non fu regolare?

Precisiamo: non fu regolare se non nel quadro delle distorsioni della legalità introdotte dalla cosiddetta “emergenza”. Sotto il profilo del diritto generale, il processo fu viziato da almeno tre elementi: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria (3), l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta attendibilità. Più altri elementi minori.

I magistrati torturarono gli arrestati?

No. Fu la polizia a torturarli. Vi furono ben tredici denunce: otto provenienti da imputati, cinque da loro parenti. Non un fatto inedito, ma certo fino a quel momento insolito, in un’istruttoria di quel tipo. I magistrati si limitarono a ricevere le denunce, per poi archiviarle.

Forse le archiviarono perché non si era trattato di vere torture, ma di semplici pressioni un po’ forti sugli imputati.

Uno dei casi denunciati più di frequente fu quello dell’obbligo di ingurgitare acqua versata nella gola dell’interrogato, a tutta pressione, tramite un tubo, mentre un agente lo colpiva a ginocchiate nello stomaco. Tutti denunciarono poi di essere stati fatti spogliare, avvolti in coperte perché non rimanessero segni e poi percossi a pugni o con bastoni. Talora legati a un tavolo o a una panca.

Se i magistrati non diedero seguito alle denunce, forse fu perché non c’erano prove che tutto ciò fosse realmente accaduto.

Infatti il sostituto procuratore Alfonso Marra, incaricato di riferire al giudice istruttore Maurizio Grigo, dopo avere derubricato i reati commessi dagli agenti della Digos da “lesioni” a “percosse” per assenza di segni permanenti sul corpo (in Italia non esisteva il reato di tortura, e non esiste nemmeno ora), concludeva che la stessa imputazione di percosse non poteva avere seguito, visto che gli agenti, unici testimoni, non confermavano. Dal canto proprio il PM Corrado Carnevali, titolare del processo Torregiani, insinuò che le denunce di torture fossero un sistema adottato dagli accusati per delegittimare l’intera inchiesta.

Nulla ci dice che il PM Carnevali avesse torto.

Almeno un episodio non collima con la sua tesi. Il 25 febbraio 1979 l’imputato Sisinio Bitti denunciò al sostituto procuratore Armando Spataro le torture subite e ritrattò le confessioni rese durante l’interrogatorio. Tra l’altro, raccontò che un poliziotto, nel percuoterlo con un bastone, lo aveva incitato a denunciare un certo Angelo; al che lui aveva denunciato l’unico Angelo che conosceva, tale Angelo Franco. La ritrattazione di Bitti non fu creduta, e Angelo Franco, un operaio, fu arrestato quale partecipante all’attentato Torregiani. Solo che pochi giorni dopo lo si dovette rilasciare: non poteva in alcun modo avere preso parte all’agguato. Dunque la ritrattazione di Bitti era sincera, e dunque, con ogni probabilità, anche le violenze con cui la falsa confessione gli era stata estorta. Sisinio Bitti riportò lesioni permanenti ai timpani. Se le era procurate da solo?

Ammesso il ricorso alle sevizie in fase istruttoria, ciò non assolve Cesare Battisti.

No, però dà l’idea del tipo di processo in cui fu implicato. Definirlo “regolare” è a dir poco discutibile. Tra i testi a carico di alcuni imputati figurarono anche una ragazzina di quindici anni, Rita Vitrani, indotta a deporre contro lo zio; finché le contraddizioni e le ingenuità in cui incorse non fecero capire che era psicolabile (“ai limiti dell’imbecillità”, dichiararono i periti) (4). Figurò anche un altro teste, Walter Andreatta, che presto cadde in stato confusionale e fu definito “squilibrato” e vittima di crisi depressive gravi dagli stessi periti del tribunale.

Pur ammettendo il quadro precario dell’inchiesta, c’è da considerare che Cesare Battisti rinunciò a difendersi. Quasi un’ammissione di colpevolezza, anche se, prima di tacere, si proclamò innocente.

Può sembrare così oggi, ma non allora. Anzi, è vero il contrario. A quel tempo, i militanti dei gruppi armati catturati si proclamavano prigionieri politici, e rinunciavano alla difesa perché non riconoscevano la “giustizia borghese”. Battisti vi rinunciò perché disse di dubitare dell’equità del processo.

Tralasciate violenze e testimonianze poco attendibili in fase istruttoria, il processo fu però condotto a conclusione con equità.

Non proprio. Accusati minori furono colpiti con pene spropositate. Il già citato Bitti, riconosciuto innocente di ogni delitto, fu ugualmente condannato a tre anni e mezzo di prigione per essere stato udito approvare, in luogo pubblico, l’attentato a Torregiani. Era scattato il cosiddetto “concorso morale” in omicidio, direttamente ispirato alle procedure dell’Inquisizione. Il già citato Angelo Franco, pochi giorni dopo il rilascio, fu arrestato nuovamente, questa volta per associazione sovversiva, e condannato a cinque anni. Ciò in assenza di altri reati, solo perché era un frequentatore del collettivo autonomo della Barona.

Secondo Luciano Violante, una certa “durezza” era indispensabile a spegnere il terrorismo. E Armando Spataro sostiene che, a questo fine, l’aggravante delle “finalità terroristiche”, che raddoppiava le pene, si rivelò un’arma decisiva.

Spezzò anche le vite di molti giovani, arrestati con imputazioni destinate ad aggravarsi in maniera esponenziale nel corso della detenzione, pur in assenza di fatti di sangue.

Ciò non vale per Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per avere partecipato a due omicidi ed eseguito altri due.

Di Torregiani e Sabbadin si è detto. Veniamo a Santoro e Campagna. Mutti accusa Battisti di essere l’omicida di Santoro, ma poi le prove lo costringono ad ammettere di essere stato lui, l’assassino. L’uccisione dell’agente Campagna avviene dopo che i PAC sono stati sciolti, e un gruppetto di quartiere ne perpetua le gesta. L’assassino si chiama Giuseppe Memeo, reo confesso. Ha sparato con la stessa pistola che aveva ucciso Torregiani. Mutti ne parla per sentito dire. Memeo aveva un complice biondo, altro 1,90. Battisti? Ne parleremo tra poco.
Al termine del processo di primo grado Battisti, arrestato in origine per imputazioni minori (possesso di armi, che peraltro risultarono non avere mai sparato), si trovò condannato a dodici anni e mezzo di prigione. Le condanne all’ergastolo giunsero cinque anni dopo la sua evasione dal carcere. Ma qui è tempo di parlare dei “pentiti” e, soprattutto, del principale pentito che lo accusò. Per poi entrare nel merito degli altri tre delitti.

Vediamo di capire che cos’è un “pentito”.

Se ci riferiamo ai gruppi di estrema sinistra, vengono così chiamati quei detenuti per reati connessi ad associazioni armate che, in cambio di consistenti sconti di pena, rinnegano la loro esperienza e accettano di denunciare i compagni, contribuendo al loro arresto e allo smantellamento dell’organizzazione. Di fatto una figura del genere esisteva già alla fine degli anni ’70, ma entra stabilmente nell’ordinamento giuridico prima con la “legge Cossiga” 6.2.1980 n. 15, poi con la “legge sui pentiti” 29.5.1982 n. 304. Manifesta i pericoli insiti nel suo meccanismo sia prima che dopo questa data.

Quali sarebbero i “pericoli”?

La logica della norma faceva sì che il “pentito” potesse contare su riduzioni di pena tanto più elevate quante più persone denunciava; per cui, esaurita la riserva delle informazioni in suo possesso, era spinto ad attingere alle presunzioni e alle voci raccolte qui e là. Per di più, la retroattività della legge incitava a delazioni indiscriminate anche a distanza di molti anni dai fatti, quando ormai erano impossibili riscontri materiali.

Esistono esempi di questi effetti perversi?

Il caso più clamoroso fu quello di Carlo Fioroni, che, minacciato di ergastolo per il sequestro a fini di riscatto di un amico, deceduto nel corso del rapimento, accusò di complicità Toni Negri, Oreste Scalzone e altre personalità dell’organizzazione Potere Operaio, sgravandosi della condanna. Ma anche altri pentiti, quali Marco Barbone (oggi collaboratore di quotidiani di destra), Antonio Savasta, Pietro Mutti, Michele Viscardi ecc. seguitarono per anni a spremere la memoria e a distillare nomi. Ogni denuncia era seguita da arresti, tanto che la detenzione diventò arma di pressione per ottenere ulteriori pentimenti. Purtroppo ciò destò scandalo solo in un secondo tempo, quando la logica del pentitismo, applicata al campo della criminalità comune, provocò il caso Tortora e altri meno noti.

Pietro Mutti fu l’accusatore principale di Cesare Battisti. Chi era?

Fu, per sua stessa confessione, il fondatore dei PAC. Figurò tra gli imputati del processo Torregiani, sebbene latitante, e l’accusa chiese per lui otto anni di prigione. Fu catturato nel 1982 (dopo che Battisti era già evaso), a seguito della fuga dal carcere di Rovigo, il 4 gennaio di quell’anno, di alcuni militanti di Prima Linea. Mutti fu tra gli organizzatori dell’evasione. Era stato compagno di cella di Battisti, quando questi era in carcere per reati comuni, e autore della sua politicizzazione (un ruolo curiosamente poi rivendicato dal dissociato Arrigo Cavallina).

Di quali delitti Mutti, una volta pentito, accusò Battisti?

Tralasciando reati minori, per tre omicidi. Battisti (con una complice e con lo stesso Mutti, che sulle prime cercò di negare la sua presenza) avrebbe direttamente assassinato, il 6 giugno 1978, il maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, che i PAC accusavano di maltrattamenti ai detenuti. Avrebbe direttamente assassinato a Milano, il 19 aprile 1979, l’agente della Digos Andrea Campagna, che aveva partecipato ai primi arresti legati al caso Torregiani. Tra i due delitti avrebbe preso parte, senza sparare direttamente ma comunque con ruoli di copertura, al già citato omicidio del macellaio Lino Sabbadin di Santa Maria di Sala. Di tutto ciò si è già discusso.

L’omicidio Sabbadin è tra quelli di cui più si è parlato. In un’intervista al gruppo di estrema destra francese Bloc Identitaire, il figlio di Lino Sabbadin, Adriano, ha dichiarato che gli assassini del padre sarebbero stati i complici del rapinatore da questi ucciso.

O la sua risposta è stata male interpretata, o ha dichiarato cosa che non risulta da alcun atto. Meglio tralasciare le dichiarazioni dei congiunti delle vittime, la cui funzione, nel corso degli ultimi quattro anni, è stata essenzialmente spettacolare.

Cesare Battisti è colpevole o innocente dei tre omicidi di cui lo accusò Mutti?

Lui si dice innocente, anche se si fa carico della scelta sbagliata in direzione della violenza che, in quegli anni, coinvolse lui e tanti altri giovani. Qui però non è questione di stabilire l’innocenza o meno di Battisti. E’ invece questione di vedere se la sua colpevolezza fu mai veramente provata, nonché di verificare, a tal fine, se l’iter processuale che condusse alla sua condanna possa essere giudicato corretto. In caso contrario, non si spiegherebbe l’accanimento con cui il governo italiano, con il sostegno anche di nomi illustri dell’opposizione, ha cercato di farsi riconsegnare Battisti prima dalla Francia e oggi dal Brasile.

A parte le denunce di Mutti, emersero altre prove a carico di Battisti, per i delitti Santoro, Sabbadin (sia pure in ruolo di copertura) e Campagna?

No. Quando oggi i magistrati parlano di “prove”, si riferiscono all’incrocio da loro effettuato tra le dichiarazioni di un pentito (nel nostro caso Mutti) e gli indizi indirettamente forniti dai “dissociati”, tipo Cavallina.

Armando Spataro continua ad asserire che prove e riscontri vi sarebbero.

Continua a dirlo, ma non specifica mai quali.

Cosa si intende per “dissociato”?

Chi prenda le distanze dall’organizzazione armata cui apparteneva e confessi reati e circostanze che lo riguardino, senza però accusare altri. Ciò comporta uno sconto di pena, anche se ovviamente inferiore a quello di un pentito.

In che senso un dissociato può fornire indirettamente indizi?

Per esempio se afferma di non avere partecipato a una riunione perché contrario a una certa azione che lì veniva progettata, pur senza dire chi c’era. Se nel frattempo un pentito ha detto che X partecipò a quella riunione, ecco che X figura automaticamente tra gli organizzatori.

Cosa c’è che non va, in questa logica?

C’è che sia la denuncia diretta del pentito, che l’indizio fornito dal dissociato, provengono da soggetti allettati dalla promessa di un alleggerimento della propria detenzione. La loro lettura congiunta, se mancano i riscontri, è effettuata dal magistrato che la sceglie tra varie possibili. Inoltre è comunque il pentito, cioè colui che ha incentivi maggiori, a essere determinante. Tutto ciò in altri paesi (non totalitari) sarebbe ammesso in fase istruttoria, e in fase dibattimentale per il confronto con l’accusato. Non sarebbe mai accettato con valore probatorio in fase di giudizio. In Italia sì.

Nel caso di Battisti mancano altri riscontri?

Vi sono solo dei riconoscimenti di testi che lo stesso magistrato Armando Spataro ha definito poco significativi.

Eppure dice che “le confessioni di Mutti (…) sono state convalidate da molte testimonianze e dalle successive dichiarazioni di altri ex terroristi” (Il Corriere della Sera, 23 gennaio 2009).

Si tratta sempre di Mutti e di Cavallina. Quanto ai testi, basti dire che l’autore del delitto Santoro aveva la barba (e qui ci siamo, Mutti parla di una barba finta), era biondo (Battisti avrebbe potuto tingersi i capelli) ed era alto 1,90 (qui non ci siamo più: Battisti supera di poco l’1,60).

Ma il pentito Pietro Mutti non può essere ritenuto credibile? Vi sono motivi per asserire che sia mai caduto nel meccanismo “Quanto più confesso, tanto meno resto in prigione”?

Lo asserisce una sentenza di Cassazione del 1993. Citiamo testualmente:
“Questo pentito è uno specialista nei giochi di prestigio tra i suoi diversi complici, come quando introduce Battisti nella rapina di viale Fulvio Testi per salvare Falcone (…) o ancora Lavazza o Bergamin in luogo di Marco Masala in due rapine veronesi”.
Più sotto:
“Del resto, Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era d’altra parte stato denunciato dalla DIGOS di Milano e dai CC di Udine. Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
Teniamo inoltre conto che Mutti, colpevole di omicidi e rapine, ha scontato solo otto anni di prigione. Un privilegio condiviso con l'uccisore di Walter Tobagi (anche quel caso, su cui permangono molti dubbi, fu istruito da Armando Spataro), con il pluri-omicida Michele Viscardi e con molti altri pentiti.

Ci sono altri motivi per dubitare della sincerità di Mutti?

Sì. Le denunce di Pietro Mutti non riguardarono solo Battisti e i PAC, ma furono a 360 gradi, e si indirizzarono nelle direzioni più svariate. La più clamorosa riguardò l’OLP di Yasser Arafat, che avrebbe rifornito di armi le Brigate Rosse. In particolare, elencò Mutti, “tre fucili AK47, 20 granate a mano, due mitragliatrici FAL, tre revolver, una carabina per cecchini, 30 chilogrammi di esplosivo e 10.000 detonatori” (mica tanto, a ben vedere, a parte il numero incongruo dei detonatori; mancava solo che Arafat consegnasse una pistola ad aria compressa). Il procuratore Carlo Mastelloni poté, sulla base di questa preziosa rivelazione, aggiungere un fascicolo alla sua “inchiesta veneta” sui rapporti tra terroristi italiani e palestinesi, e chiamò persino in giudizio Yasser Arafat. Poi dovette archiviare il tutto, perché Arafat non venne e il resto si sgonfiò.

Ciò ha a che vedere con le armi, provenienti dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mercanteggiate nel 1979 da tale Maurizio Follini, che Armando Spataro dice essere stato militante dei PAC?

Questo Follini era mercante d’armi e, secondo alcuni, spia sovietica. Fu tirato in ballo da Mutti, ma in relazione ad altri gruppi. Meglio stendere un velo pietoso. Dopo avere notato, però, quanto le rivelazioni di Mutti tendessero al delirio.

Mutti non sarà attendibile per altre inchieste, ma nulla ci garantisce che, almeno sui PAC, non dicesse la verità.

Nulla ce lo dice, infatti, se non un dettaglio. Nel 1993, la Cassazione ha mandato assolta una coimputata di Battisti (nel delitto Santoro), anche lei denunciata da Mutti. Parlo del 1993. Per dieci anni la magistratura aveva creduto, a suo riguardo, alle accuse del pentito. Ciò dovrebbe commentarsi da solo.

Anche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare Battisti sia stato viziato da irregolarità e imperniato sulle deposizioni di pentiti poco credibile, è certo che Battisti ha potuto difendersi nei successivi gradi di giudizio.

Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno in Italia.

Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i gradi di processo attraverso il legale da lui nominato.

Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai familiari, né con i familiari stessi.

Questo lo dice lui.

Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione in due ergastoli (nessun altro imputato nel processo ebbe una condanna simile, inclusi gli assassini di Torregiani!), e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.

Ma Battisti sottoscrisse delle deleghe ai suoi legali, perché lo rappresentassero, lui contumace.

E’ stato ampiamente dimostrato, dai periti di parte, però scelti tra quelli della Corte di Parigi, che le firme furono falsificate (forse a fin di bene). Le deleghe erano in bianco, e furono redatte nel 1981.

Battisti asserisce la propria innocenza, salvo fatti minori attribuibili ai PAC, senza fornire prove concrete.

Ma Battisti non è tenuto a provare nulla! L’onere della prova spetta a chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un “pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate. Il tutto nel quadro di una normativa inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.

Ciò non toglie che gran parte della sinistra sia compatta nel sostegno a un magistrato come Armando Spataro, e sia unanime nel richiedere al Brasile l’estradizione.

Questo è un problema della sinistra, appunto. C’è da chiedersi se sia a conoscenza di ciò che non il solo Spataro, ma altri magistrati che come lui furono tra i protagonisti della repressione dei movimenti degli anni ’70 e dei primi anni ’80, pensano dei casi di Adriano Sofri o di Silvia Baraldini. Immagino – o forse spero – che non pochi esponenti della “sinistra” (chiamiamola così) ne resterebbero un po’ scossi. Per non parlare del “malore attivo” (?) a cui Gerardo D’Ambrosio ha attribuito la morte di Giuseppe Pinelli. O del rimbalzo di un proiettile contro un sasso volante che ha ucciso Carlo Giuliani. La denigrazione dei magistrati ha il suo contraltare nella santificazione dei magistrati.

Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato pentimento.

Il diritto moderno – l’ho già detto - reprime i comportamenti illeciti e ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era tipico di Torquemada o di Vishinskij. Il rigetto da parte di Battisti dell’ipotesi di lotta armata è esplicito nei suoi romanzi Le cargo sentimental e Ma cavale, non tradotti in Italia. Essendo uno scrittore, si esprime tramite la scrittura.

Ha persino esultato quando, in Francia, è stato momentaneamente liberato.

Lo farebbe chiunque.

Da perfetto vigliacco, si è sottratto all’estradizione ed è riparato in Brasile, dove è andato a vivere nientemeno che a Copacabana.

Chi conosca Copacabana, sa che oltre la spiaggia e gli alberghi si estendono caseggiati popolari. Lì viveva Battisti. Ma adesso basta con queste stronzate. Battisti è stato tutto ciò che volete, salvo una cosa: non è mai stato ricco. Non è mai stato il prediletto dei salotti di cui favoleggia Panorama. Era il portinaio dello stabile in cui abitava. Si permetteva ogni tanto un caffè al bar di immigrati sotto casa.

Armando Spataro dice, sul numero citato del Corriere della Sera, che Battisti non è mai stato un criminale politico, bensì un delinquente comune, assetato di denaro.

Spataro sovrappone il percorso di Battisti prima della politicizzazione, quando era un semplice delinquente di periferia, a quello successivo. Nessuna delle azioni che gli sono attribuite quale “terrorista”, vere o fasulle, obbediva a fini di lucro personale. Battisti fu un militante dei settori armati di quella che era chiamata “autonomia operaia”. Lo sanno tutti, Spataro incluso. Negare la natura politica dei suoi atti, per indurre il governo brasiliano a concedere l’estradizione, è la menzogna più colossale che circondi la vicenda Battisti. Un delinquente comune non rivendica la sua affiliazione ai “Proletari Armati per il Comunismo”. Del resto, i fascisti, i parafascisti, i post-fascisti dell’Italia odierna citano di continuo la sua posizione di “comunista” quale aggravante. Mentre gli ex-comunisti manifestano nei confronti di Battisti identico orrore, visto che incarna le idee che hanno rinnegato. Non c’è mai stato caso più “politico”, da Valpreda a oggi.

Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso.

Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano. Ma ciò può essere oggetto di altre FAQ, che prescindano dal caso specifico fin qui trattato. Quanto agli accusatori, che gridano a squarciagola “dagli all’assassino!”, osservino le proprie mani. Sono abbondantemente macchiate di sangue. Hanno applaudito un poco tutto, a cominciare dai bombardamenti su Belgrado, fino ad arrivare alle stragi in Libano e a Gaza. Si sono arrossate negli applausi a “missioni umanitarie” condite da massacri. Hanno dato il via libera all’eliminazione sociale dei soggetti deboli, sul mercato del lavoro. Davvero, oggi, i “nemici dell’umanità” si chiamano Battisti o Petrella?


NOTE

1) Cfr. I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire, l’Inquisizione come modello di violenza legale, Bompiani, 1988.

2) Cfr. F. Vargas, Postface, in C. Battisti, Ma cavale, Grasset-Rivages, Paris, 2006, p. 265.

3) L’uso della tortura, nei processi contro i terroristi di sinistra fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, è scrupolosamente documentato nel volume Le torture affiorate, coll. Progetto Memoria, ed. Sensibili alle foglie, 1998.

4) Su Panorama del 25 gennaio 2009 il giornalista Amadori, sentita la famiglia, mette in dubbio la labilità della memoria di Rita Vetrani - chiamata a testimoniare, lei minorenne, contro lo zio. I referti dei periti, poco contestabili, sono riportati testualmente in L. Grimaldi, Processo all’istruttoria, Milano Libri, Milano, 1981.

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