martedì 31 agosto 2010

Lotta di classe

di Luigi De Magistris (28 Agosto 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.contropiano.org

Nel nostro Paese da alcuni anni e negli ultimi mesi in particolare è in fase di definitiva attuazione un disegno strategico autoritario, di impronta piduista, teso all'introduzione del fascismo del terzo millennio. Verticalizzazione e concentrazione del potere nelle mani di una singola persona, con pieni poteri, circondata da sodali servili, imbottito di denari e protetto dalle organizzazioni criminali. Asservimento al capo degli organi di garanzia. Sottomissione della magistratura al potere politico, controllo capillare dei mezzi di comunicazione.

Al fine di consolidare il neo-autoritarismo populista si attua la criminalizzazione di ogni forma di dissenso, con la distruzione di ogni luogo in un cui si possa formare il pensiero libero. Rendere l'Italia una grande SPA, in modo da rafforzare il liberismo senza regole e consentire la vendita di ogni cosa - compresa l'identità della nazione - che sia suscettibile di valutazione economica.

Acqua spa, protezione civile spa, difesa spa, sicurezza spa, giustizia spa, patrimonio culturale spa, ambiente spa.

In definitiva, la privatizzazione della democrazia e il dissolvimento dell'etica pubblica. La propaganda di regime di Scodinzolini & C. serve per nascondere i fatti ed esaltare il sub-modello neo-fascista anche in vista della normalizzazione post-berlusconiana. Accanto al massacro dello stato di diritto è in atto, con la colpevole sottovalutazione di parte significativa del centro-sinistra e di settori rilevanti del sindacato, lo smantellamento dello stato sociale di diritto per mutare i rapporti tra capitale e lavoro, in favore del primo, ovviamente. Distruzione dello statuto dei lavoratori, attraverso l'eliminazione della norma simbolo dell'art. 18. Riduzione del diritto di sciopero. Repressione della manifestazione del pensiero all'interno delle fabbriche. Consolidamento del precariato, in violazione dell'art. 1 della Costituzione, come regola ordinaria dei rapporti tra capitale e lavoro. Il ricatto ai lavoratori: il lavoro non è un diritto, ma una concessione del potere, come tale condizionabile e revocabile. Lavoro in cambio di compressione dei diritti, come un baratto. L'utilizzo dell'immigrato non-persona in maniera servente agli interessi del capitale: un corpo da sfruttare fino a quando utile, poi scarto sociale da smaltire, magari nelle discariche sociali delle carceri in quanto l'immigrato è criminale perchè clandestino e non autore di reati. I neofascisti hanno rispolverato, anche grazie al "compagno" Fini, la colpa d'autore che Hitler creò per gli ebrei. I lavoratori, inoltre, non debbono pensare, ma solo ubbidire a chi concede loro il privilegio di lavorare. La pretesa di un diritto è sovversione, nelle fabbriche come nei luoghi di lavoro.

Se si comprimono i diritti si uccide la democrazia; se si ammazzano i diritti dei lavoratori la soppressione è ancora più odiosa. Di fronte a questo progetto eversivo di attacco profondo alla democrazia - che passa anche attraverso lo schiaffo istituzionale di Marchionne che ordina ai suoi di non ottemperare alla sentenza del giudice che dispone il reintegro dei lavoratori di Melfi - non si può rimanere fermi. Si deve consolidare la lotta per i diritti già in atto nel Paese. Se il governo, con il ministro Tremonti, adotta una manovra di classe colpendo i soliti noti e tutelando i soliti noti, i ceti oppressi (lavoratori, precari, studenti, senza lavoro, senza dimora, operai, pensionati, impiegati, imprenditori onesti diversi dai prenditori, professionisti perbene, servitori dello stato stanchi del regime delle cricche e dei mafiosi di stato) devono attuare la "nuova lotta di classe".

Sì ai diritti, no ai privilegi. Sì alla giustizia, no alle mafie. Si alla legalità costituzionale, no alla legalità illegale. No allo scudo - fiscale, economico e penale - per i potenti, sì alla redistribuzione dei redditi. Lotta ad evasione e privilegi fiscali. Tassazione delle rendite finanziarie. Aumento dei salari e previsione di un reddito minimo per i senza lavoro. Utilizzo diverso dei fondi pubblici, per uno sviluppo economico compatibile con l'ambiente e per valorizzare ricerca e cultura.

Qualche casa del popolo in più e qualche casa di Propaganda Fide in meno. Riduzione drastica delle forme più odiose di precariato. Valorizzazione dei beni comuni ed eliminazione del federalismo dei ricchi a discapito dei più deboli. Un federalismo che punta anche alla vendita dei beni pubblici patrimonio comune del Paese: dalle foreste ai beni culturali, dai siti archeologici ai beni architettonici. La nuova lotta di classe, ovviamente pacifica, deve essere dura, senza sconti. E' il momento che il popolo, non quello evocato strumentalmente dal neofascista Berlusconi o dal peones Bossi, ma quello che soffre e che non gode dei privilegi, si ribelli, faccia sentire la sua voce, forte e chiara. Si riappropri delle comunità, dei territori violentati. Si convinca che può essere protagonista del proprio destino. Mettiamoci tutti in movimento, come il popolo del quarto stato, quali soggetti politici e pensanti, per far valere diritti e democrazia. Il potere ha paura della gente che pensa in modo libero e critico e che dissente dal pensiero unico, ha il terrore delle facce pulite, dei cuori generosi, teme la democrazia. Viviamo in un regime che dispensa, allo stesso tempo, sorrisi e violenza morale, prebende e "picconate istituzionali".

Un sultanato amorale che vede l'Italia come cosa da sfruttare: l'ideologia degli "utilizzatori finali".

Non consentiamo più l'usurpazione dell'Italia, del nostro futuro e del sogno di vivere in un Paese pulito, senza il puzzo del compromesso morale. Dipende anche da noi, da ognuno di noi, in modo anche da poterci guardare allo specchio con un sorriso e non con gli occhi abbassati


San Salvo - Lavoratori sospesi dopo uno sciopero

San Salvo, pugno duro nei confronti di quattro addetti del centro di smistamento Conad

SAN SALVO. Pugno duro della Cft di Firenze, azienda che lavora per il centro smistamento Conad di Piana San Angelo, nei confronti di quattro dipendenti iscritti al sindacato Slai Cobas. I lavoratori sono stati sospesi in via cautelativa per aver partecipato a uno sciopero. A giudizio dell'azienda, il loro comportamento avrebbe impedito il corretto svolgimento dell'attività lavorativa. Lo Slai Cobas non ci sta e annuncia l' impugnativa del provvedimento davanti al tribunale di Vasto. Clima infuocato nello stabilimento sansalvese del gruppo Conad dopo la sospensione cautelativa di 4 dipendenti della Cft, la coop toscana addetta al facchinaggio e trasporto delle merci del consorzio. Venti dei 200 addetti nella azienda abruzzese, giovedì pomeriggio, hanno incrociato le braccia dalle 15 alle 18 per protestare contro le pracarie condizioni di lavoro, sia dal punto di vista igienico che della sicurezza. Lo sciopero è stato indetto dalle Rsa dello Slai Cobas. Fra i manifestanti due sindacalisti attivi dello Slai e due iscritti. A parere del sindacato, l'astensione dal lavoro è stata pacifica e in linea con quanto preveede lo statuto dei lavoratori. Alle 18, gli scioperanti sono tornati a casa. La sorpresa per i 4 sindacalisti dei Cobas è arrivata ieri mattina. «Entrati in azienda, hanno ricevuto una lettera in cui veniva comunicata loro la sospensione cautelativa dal lavoro per avere impedito il corretto svolgimento dell'attività lavorativa», fa sapere Andrea Di Paolo, coordinatore provinciale Slai Cobas di Campobasso. Alla scena hanno assistito anche i carabinieri della stazione di San Salvo che si trovavano davanti ai cancelli della fabbrica a scopo preventivo. «E' un fatto inaudito», tuona Di Paolo, «siamo in stato di assedio. Ai lavoratori viene negato il diritto di scioperare. Quello dei responsabili della Cft è un comportamento antisindacale contro il quale ci appelleremo al Tribunale di Vasto». La Cft, è azienda leader nel settore del facchinaggio. In tutta Italia conta 1500 lavoratori. Il 60 per cento dei dipendenti occupati a San Salvo, all'interno del centro smistamento merci Conad, è di origine straniera. «Sono lavoratori extracomunitari assunti con contratto multiservizio», fa sapere lo Slai Cobas convinto che i 4 manifestanti siano stati «puniti perché iscritti al sindacato. I 4 lavoratori sono stati trattati in modo scorretto. Quello dell'azienda è un atto inaudito e tristissimo. Il primo passo che precede il licenziamento», incalza Di Paolo. Le altre sigle sindacali per il momento tacciono. L'azienda, che da parte sua ritiene di essere stata danneggiata, è pronta a rispondere al sindacato nelle sedi opportune. Certo è che la vicenda aumenta la preoccupazione di tanti precari. Anche perché fa il paio con la disavventura capitata a Giovanni Musacchio, il dipendente della Fiat di Termoli licenziato dopo aver partecipato al presidio di Pomigliano D'Arco, il 22 giugno scorso. Lo Slai Cobas non accetta il pugno di ferro e non intende subire passivamente un comportamento che definisce qualcosa di molto simile a una rappresaglia.

28 agosto 2010

Morto sul lavoro a La Spezia

Incidente mortale al Molo Ravano: era originario di Parma si chiamava Roberto Mattioli

La Spezia. Roberto Mattioli è il portuale morto questa notte nel terribile incidente avvenuto al molo Ravano. Mattioli, 59 anni, era oginario di Parma e lavorava per una ditta di Mantova. L'operaio è stato trovato dai colleghi, schiacciato dal Tir col quale stava lavorando. Un'altra terribile tragedia che si è consumata nel porto, ora verranno utilizzati anche i nastri della videosorveglianza per ricostruire la dinamica dell'incidente. Stando ad una prima ricostruzione Mattioli sarebbe sceso dal mezzo in una zona dove è interdetta la circolazione pedonale: probabilmente doveva sistemare i vincoli o per un'altra necessità, rimanendo schiacciato. Il dramma si è consumato tra l'abitacolo ed un muro di container accanto al mezzo. Quando l'operaio ha visto il camion muoversi, con tutta probabilità, ha provato a fermarlo ma non ci è riuscito e ha tentato disperatamente di saltare nuovamente nell'abitacolo senza tuttavia riuscirci. Alcuni testimoni hanno detto di aver trovato l'uomo schiacciato tra i contenitori ed il camion. L'operaio sarebbe morto sul colpo. La tragedia è avvenuta in una zona di movimentazione container dove vengono utilizzate le gru che sollevano e trasferiscono i carichi dei mezzi pesanti.

31/08/2010 12:21:09


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Porto di La Spezia, muore camionista travolto dal tir senza freno a mano

Vittima un autotrasportatore di 59 anni, emiliano di origine. L'infortunio al terminal principale dello scalo. Sceso dal camion, l'uomo è stato travolto dalla motrice libera di muoversi senza freno a mano. E' accaduto attorno alla mezzanotte. Sul posto hanno operato fino alle tre e mezza i vigili del fuoco. La Procura ha aperto un'inchiesta. I lavoratori del terminal si sono fermati per alcune ore subito dopo l'incidente

Un autotrasportatore di 59 anni, Roberto Mattioli di Parma, è morto questa notte intorno a mezzanotte nel porto di La Spezia. E' accaduto al terminal principale delle banchine spezzine, il Ravano. Il "padroncino" è rimasto schiacciato tra la motrice del suo mezzo pesante che si è mossa ed una pila di container. Pare che l'uomo non avesse tirato il freno a mano del mezzo e fosse sceso nel piazzale. Nel tentativo di fermare il camion è rimasto travolto. I lavoratori del terminal si sono fermati per alcune ore subito dopo l'incidente.

Sul posto hanno operato fino alle tre e mezza i vigili del fuoco, le forze dell'ordine, e gli ispettori, impegnati nella ricostruzione della tragedia. Il corpo è stato quindi rimosso e composto presso l'obitorio dell'ospedale spezzino Sant'Andrea.

(31 agosto 2010)

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La Spezia, incidente mortale in porto

31 agosto 2010 /E.Cap.

Intorno alle 24, tragedia nel porto della Spezia, dove un lavoratore è rimasto ucciso.

Secondo quanto ricostruito, il 59enne Roberto Mattioli, residente a Parma, sarebbe stato schiacciato fra la motrice del suo camion e alcuni container in un piazzale del Porto Mercantile.

L’uomo sarebbe sceso dal mezzo pesante, forse per sistemare i vincoli del carico, e il veicolo si sarebbe messo in movimento. La vicinanza fra il camion e il “muro” di container ha impedito a Mattioli di fuggire: probabilmente è riuscito a vedere muovere il camion, a capire che cosa stava accadendo, forse si è precipitato verso la cabina di guida, la cui portiera è stata trovata aperta, ma per una manciata di secondi non è riuscito a salire.

Sul posto sono accorsi i vigili del Fuoco e il 118, che hanno lavorato sino alle 3.30, ma per l’uomo non c’era nulla da fare.

Ora si sta lavorando per ricostruire la cause dell’incidente, mentre il corpo è stato portato nell’obitorio dell’ospedale Sant’Andrea. Saranno visionati i filmati delle telecamere di sorveglianza per ricostruire la dinamica della tragedia.

Marchionne, Comunione e Liberazione e i sacrifici umani

C’è un passaggio fondamentale nel discorso di Sergio Marchionne a Rimini per il meeting di Comunione e Liberazione. Riferendosi ai tre operai di Melfi, difesi in questi giorni sia dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sia dalla Conferenza Episcopale, l’amministratore delegato della FIAT ha ripetuto una frase che aveva già usato nei giorni scorsi: “la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”.

Il contesto è quello nel quale i tre operai lucani Giovanni Barozzino, Angelo Lamorte e Marco Pignatelli verranno stritolati: o il loro diritto al lavoro o l’intera industria meridionale, i nostri 20 miliardi d’investimenti in cambio della totale carta bianca in rapporti di produzione senza alcuna dialettica possibile. Che una frase apparentemente così ben detta potesse far spellare le mani in ambienti confindustriali ci sta. Più sorprendente è invece che per una frase del genere si siano spellati le mani a Rimini.

Il concetto espresso da Marchionne, per il quale il diritto di tre operai non può intralciare il progetto generale di un nuovo patto sociale senza alcuna dialettica possibile tra capitale e lavoro contiene infatti il ribaltamento della stessa etica cattolica nella quale CL risulta tuttora riconoscersi.

Contiene infatti il paradossale ribaltamento della risoluzione nella persona del conflitto sia verso l’individuo che verso la società che è parte dell’incontro della Chiesa con la modernità. L’essenza del ruolo scelto per sé dalla Chiesa nel Secolo è che dignità e diritti siano indisponibili e patrimonio di ogni singola persona e che non possano essere sacrificati ad un generico interesse generale. L’esempio più tipico è la difesa della vita fin dal concepimento e la conseguente negazione del diritto della donna ad interrompere la gravidanza.

Se Giovanni Barozzino, Angelo Lamorte e Marco Pignatelli hanno ragione, ha sostenuto autorevolmente anche la CEI in questi giorni con le parole di Monsignor Bregantini per il quale “la FIAT nega la dignità del lavoro”, allora la dignità e i diritti dei tre sono sacri proprio perché solo nel rispetto dogmatico della loro dignità e dei loro diritti in quanto singole persone vi è il solo percorso possibile verso la dignità e i diritti in generale.

Non la pensa così Comunione e Liberazione. L’approvazione a Marchionne contiene allora il superamento della sacralità della persona in favore di un neo-leviatano che non è certo lo Stato ma è l’impresa globalizzata che, ipse dixit Marchionne, può funzionare solo con regole non negoziabili, novelle tavole della legge imposte non dal dio di Abramo ma da quello di Adamo, inteso come Adamo Smith, con la sua mano invisibile.

Se da una parte è evidente che la lobby affaristica della Compagnia delle Opere si riconosca e veda un’opportunità nel Marchionne modernizzatore dell’Italia imbalsamata che neanche l’amato Silvio Berlusconi ha saputo rinnovare e liberare dai cosiddetti “lacci e lacciuoli”, che ne è della difesa integrale dei diritti della persona dal concepimento alla morte?

Si deve difendere l’embrione ma va usata la spada contro i tre operai Giovanni Barozzino, Angelo Lamorte e Marco Pignatelli sacrificabili in un conflitto più grande di loro? Nella CL che si spella le mani per Marchionne non c’è traccia di questa contraddizione. Se Milton Friedman aveva teorizzato che libertà economiche e libertà politiche non potessero non coincidere, la Storia si è incaricata di dimostrare che tale modello era realizzabile solo in un paese senza diritti sindacali come il Cile di Augusto Pinochet.

Nella CL antimoralista raccontata da Gad Lerner, come nel Marchionne che si fa scudo della globalizzazione per approfondire in senso reazionario il solco tra capitale e lavoro, c’è voglia di superamento di quella complicazione chiamata democrazia.

lunedì 30 agosto 2010

Lo stadio è un laboratorio per il controllo sociale

La tessera del tifoso è l'emblema dello stato di polizia in cui viviamo e non va a colpire gli ultras ma tutte le persone che vanno allo stadio. Schedatura, microchip, pene arbitrarie (il daspo di per se è arbitrario, ancor di più lo è negare lo stadio a chi ha compiuto un reato ed ha già scontato la pena). da sempre lo stadio è un laboratorio, ciò che si fa allo stadio poi si applica a tutti gli altri. Ovviamente la maggior parte degli ultras sono merde violente, ma la uestione non è ultras o non ultras bensì: repressione o libertà? stato di polizia o libertà? accettare lo stato di polizia contro i tifosi significa avallare quel sistema che poi colpisce migranti e antagonisti...e viceversa. Questo dovrebbero capirlo anche gli ultras o i tifosi che plaudono alla polizia quando colpisce certa gente (migranti, ecc.) e poi piangono quando la stessa va a colpire in mezzo ai tifosi. Guardare quello che succede in uno stadio per comprendere ancor meglio la realtà...

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A questa stagione calcistica gli appassionati che vorranno abbonarsi, andare in trasferta o semplicemente assistere alle partite che la questura considera a rischio, dovranno dotarsi della cosiddetta TESSERA DEL TIFOSO.

Cos’è e cosa comporta
1)Schedatura preventiva. E’ la questura che prende possesso dei dati privati di ogni tifoso che richiede la tessera ed è lei che stabilisce se questi può o non può avere la tessera. In sostanza è la questura che stabilisce chi può o non può andare allo stadio. (In nessuna parte del mondo si è arrivati a simili sconcezze…)

2)Accanimento giudiziario ed extragiudiziario contro certi pregiudicati. La tessera viene negata a chi è sottoposto a D.A.S.P.O (http://it.wikipedia.org/wiki/Daspo) e a chi negli ultimi 5 anni è stato sottoposto a misure restrittive non necessariamente legate al mondo del calcio. (Se un rapinatore di banche viene arrestato, dopo aver scontato la sua pena può entrare in banca ed aprire un conto. In questo caso invece si nega a chi ha scontato la sua pena di godere pienamente di tutta la sua libertà, che invece gli spetterebbe di diritto, dal momento che è divenuta una persona libera.)

3)Microchip invasivo (http://www.radiosei.it/la-tessera-del-tifoso-e-il-ruolo-del-microchip-pr...). Il microchip è di tipo Radio Frequency Identification (http://it.wikipedia.org/wiki/Radio_Frequency_Identification) e viola costantemente la privacy del tifoso. Il possessore della tessera può essere seguito passo a passo in tutti i suoi spostamenti.

4)Trasformazione del tifoso in consumatore. La tessera è anche una sorta di carta di consumo che concede agevolazioni consumistiche: sconti e piccoli privilegi –non necessariamente legati al mondo del calcio- che variano di squadra in squadra…

5)Svuotamento degli stadi. La tessera ha un costo (tranne per i vecchi abbonati) e probabilmente comporterà uno svuotamento degli stadi ed un incremento degli introiti per le tv a pagamento.

Chi l’ha voluta
Il ministro Maroni, la Lega calcio e, indirettamente, le pay-tv.

Le colpe degli ultras

Gli ultras, con la costante degenerazione del tifo, pervicacemente portato avanti da anni, sono sì vittime della tessera del tifoso, ma anche colpevoli. Gli ultras negli anni hanno fornito alibi alle istituzioni per portare avanti queste politiche repressive. Molti di questi gruppi hanno sostenuto e appoggiato partiti reazionari e di destra, quelli che hanno fatto di “legge e ordine la loro bandiera, convinti com’erano di poter parlare da pari a pari con le autorità. Adesso ne pagano il prezzo loro e tutti gli altri. (Gli ultras laziali sono tra i più ipocriti e penosi del panorama calcistico italiano: hanno sostenuto durante varie elezioni squallidi personaggi come Alemanno e Polverini e tutta la destra italiana…adesso sì lamentano per la tessera, ma dovrebbero vergognarsi perché la colpa è anche loro).

Molti ultras sono convinti di essere vittime del sistema e pensano che la tessera sia voluta solo ed esclusivamente per reprimere loro. Non capiscono che qui si tratta di un vastissimo esperimento di controllo e repressione sociale.

Perché opporsi
La tessera è l’emblema della società consumistica (consumismo sfrenato, svilimento delle passioni, ecc.) e dello Stato di polizia in cui viviamo (polizia e militari ovunque, schedature preventive, microchip, ecc.

Cosa fare
Rifiutarsi di fare la tessera e boicottare tutto il calcio moderno (niente abbonamenti alle tv a pagamento, niente merchandising calcistico, ecc.)

 
FONTE: Indymedia

Angela racconta cosa significa vivere in un lager di stato

Una testimonianza agghiacciante dal Cpt di Ponte Galeria, a Roma

Le persone che conoscono direttamente i Cie (centri di identificazione ed espulsione) e non si esprimono per sentito dire, hanno imparato che non sono luoghi dove poter fantasticare a occhi aperti. Anzi, sanno benissimo che sono posti dove i sogni vengono spezzati e dove si puo’ incontrare una delle più crudeli realtà del XXI secolo. E’ un accumulo di esseri umani, gettati in una fogna, dove ogni diritto è sospeso.

Lo sa benissimo Miguel, che afflitto dalla disperazione, ingoia due pile e della candeggina. Non riesce a sopportare di sottovivere in prigione, senza aver commesso nessun reato. Compie un atto estremo e spera che qualcuno si accorga di lui, della sua storia, delle sue aspirazioni spezzate.

Eppure, le istituzioni chiamano “ospiti” le persone che entrano all’interno di questi centri. Qualcuno si sorprende quando vengono chiamati Lager di stato. Qualcun’altro non resta turbato quando viene a conoscenza di storie raccapriccianti, perché sa cosa succede all’interno di quelle celle e qualcun altro ancora, è indifferente e accetta quel che può subire una persona colpevole di non avere un documento a portata di mano.

Succede che più conosci quella realtà e più scopri racconti incredibili e persone che vogliono narrare le loro esperienze dirette, vissute da protagoniste all’interno di quelle gabbie. Ci sono i migranti reclusi (come Miguel, Adel, Elham, Joy ecc) che ti implorano a scrivere e raccontare di loro. Ma ci sono anche gli operatori spesso andati via dal centro disumano e che vogliono raccontare le atrocità subite dai migranti.


NON GRADITA A PONTE GALERIA

Molte volte gli operatori che lavorano nei vari Cie d’Italia mi chiedono di mantenere segreta la loro identità per paura di perdere il posto di lavoro o per il timore di essere perseguitati. Questa volta, ci sono Nomi e cognomi. “Puoi fare tranquillamente il mio nome e anche il cognome se vuoi, io dico solo la verità” dice Angela, quando gli chiedo se vuole che la sua identità venga svelata.

Angela Bernardini, ha lavorato nel Lager romano di Ponte Galeria con la CRI dal 1998 al 1999, con varie mansioni: segreteria, logistica, ambulatorio. Come un fiume in piena mi ha raccontato ciò che succedeva all’interno di quel centro disumano sempre esaurito e stracolmo di persone.

“All'epoca - racconta Angela Bernardini - non esistevano nè regole, nè tanto meno diritti, almeno non codificati da un regolamento. I reclusi andavano a fortuna, secondo chi era di turno nei vari settori di competenza o delle forze dell’ordine”. Vi era una estrema difficoltà ad avere colloqui con gli avvocati e con i familiari. Tutto ciò che avevano, quando venivano portati al centro, era sequestrato e custodito in alcune cassette. “Non so se quando uscivano i militari ridavano loro esattamente ciò che avevano all'inizio della detenzione” dice l’ex operatrice di Ponte Galeria.

“Ho sempre cercato la vicinanza umana con i detenuti, volevo conoscere le loro storie, sapere della loro vita, aiutarli a restare persone”, perché spesso come mi hanno raccontato molti ragazzi reclusi in un Cie, è difficile restare se stessi, quando esci da quell’inferno cambi. “Io voglio restare me stesso, spero di farcela” mi diceva Miguel prima di essere espulso.

“Mi ero conquistata la loro fiducia ed il loro rispetto”, tanto che in un’occasione, Angela, è riuscita ad impedire una rivolta e in un’altra addirittura volevano fare lo sciopero della fame per lei. Era accaduto che in mensa un detenuto, “forse impazzito per davvero o forse per finta, mi ha mollato un cazzotto sulla fronte”, lasciando Angela stordita e dolorante. “Questo poveraccio – racconta l’ex volontaria della CRI - successivamente è stato massacrato di botte dai poliziotti, malgrado i miei tentativi di impedirlo”. Secondo Angela a condurre il pestaggio fu Massimo Pigozzi, che è uno dei tanti che parteciparono al pestaggio di Bolzaneto, durante il g8 del 2001, secondo le indagini condotte avrebbe dilaniato una mano ad una ragazza, divaricando le dita fino a quando la pelle si è lacerata. Secondo le agenzie di stampa, Picozzi è stato accusato anche di aver violentato nel 2005 alcune prostitute romene nella camera di sicurezza della Questura di Genova. Per precauzione, il comandante aveva deciso che per un pò Angela non entrasse in contatto con gli “ospiti” e proprio per questo motivo, i detenuti, “si sono rifiutati di andare alla mensa se non ci fossi stata io”.


ABUSI E LE VIOLENZE SNERVANTI

Era scomoda Angela, troppo umana per il potere che cinicamente deve dettare legge e impedire che uscissero fuori le vicende. La sua "confidenza" non piaceva nè ai responsabili della CRI, nè a quelli delle forze dell’ordine. “Mi spiavano, mi controllavano, mi seguivano per vedere se passavo loro droga o facevo favori sessuali”. Forse anche per trovare un pretesto e poi chiedere il suo silenzio ricattandola, chissà.

Ma ad abusare sessualmente delle detenute erano altri racconta Angela: “ So che alcuni militari, e anche qualche volontario, in cambio di sigarette e schede telefoniche avevano rapporti sessuali con viados e prostitute”. Spesso, all’interno del centro, si trovavano preservativi usati che certamente i detenuti non potevano avere con se, “come non erano certo i detenuti a far entrare la droga. Io stessa ho tirato fuori da un bagno un ragazzo in overdose”. C’era sempre qualcuno che abusava della loro debolezza e chi pagavano erano sempre le donne, con le “normali” prestazioni sessuali.

Angela comprava le sigarette ai detenuti, ma senza chiedere nulla in cambio. “A volte non potevo dar loro il cambio della biancheria intima”, entravano e uscivano praticamente sempre con quello che avevano addosso al momento del fermo. “Chi protestava veniva sedato, spesso con le botte e messo in isolamento in una stanza priva di tutto”.

Un giorno, Angela accompagna con l’ambulanza all'ospedale San Camillo un ragazzo che aveva dei gravi problemi di autolesionismo. “Io riuscii a convincerlo ed entrai in ambulanza con lui, malgrado non fossi di turno in ambulatorio”. Il ragazzo, aveva una lametta nascosta in bocca e avrebbe potuto fare del male a se stesso e ad Angela, ma con calma l’ex operatrice, cercò di farsi dare la lametta dal detenuto. Al rientro al CPT, “mi beccai una grande lavata di testa dal comandante e dopo due giorni, ricevetti una telefonata dal responsabile del mio gruppo, che mi diceva che non dovevo più presentarmi al Centro, perchè non gradita”.

Sono seguiti giorni da incubo, “ho cercato di parlare con tutti i vertici della CRI, ma non ci sono riuscita. Mi avevano creato intorno un muro impenetrabile. Alla fine, mi hanno costretto ad andarmene, in quanto sottoposta ad un mobbing continuo”.


FACCETTA NERA

Un giorno, uno come tanti, verso l’ora di pranzo, Angela racconta che mentre alcuni internati uscivano dalla sala mensa, altri invece si erano intrattenuti ai tavoli per scambiare qualche parola tra loro. Improvvisamente, "dagli altoparlanti presenti nella sala, si sono diffuse ad alto volume, le note di Faccetta nera”. Tra il poco stupore degli ospiti, “che quasi certamente non conoscevano quella marcetta” e lo sconcerto tra i volontari in servizio, le note ad alto volume continuavano a cantare tra le risate dei militari.

Angela, chiese dove fosse la centrale che governava gli altoparlanti, e “mi è stato risposto che era il posto di polizia, sito al secondo cancello di ingresso, quello che conduceva fisicamente dentro il corpo vivo del lager”.

Senza pensarci due volte, Angela si è precipitata verso il posto di polizia: “c’era un poliziotto con davanti a sè un mangianastri e la custodia di una cassetta dal titolo inequivocabile: Inni e canti del Ventennio”. Angela chiese al giovane poliziotto se si rendeva conto di quello che stava facendo, “non solo offendeva i reclusi, ma stava commettendo anche il reato di apologia di fascismo”.

Incurante di tutto ciò e del potere conferitogli dallo Stato, sorrise e in maniera ironica “ha preso la cassetta dal mangianastri, l’ha riposta e ne ha presa un’altra, dicendomi: ma io stavo mettendo Baglioni”. Con coraggio Angela fece rapporto al funzionario di PS responsabile e il poliziotto fu successivamente allontanato dal CPT, ma “per molto tempo sono stata guardata malissimo da tutti i vari addetti delle forze dell'ordine”.

Oggi, al Cie di Ponte Galeria non c’è più la CRI, ma la Cooperativa auxilium. “Da quello che leggo, non mi pare che le cose siano migliorate". E effettivamente non lo sono davvero. "Stare a Ponte Galeria mi ha cambiato per sempre la vita” parola di Angela.

Andrea Onori

Nuova rivolta al Cie di Gradisca, feriti sei militari

L'articolo de "Il Piccolo" di stamattina sulla rivolta di sabato sera. Immagini della rivolta, con un'altra cronaca, si possono trovare su Macerie (http://www.autistici.org/macerie/).

Sei militari feriti, di cui tre in maniera piuttosto seria, due immigrati (un tunisino e un algerino) arrestati per violenza e resistenza, la centrale termica distrutta a sprangate. È il bilancio della seconda notte consecutiva di rivolta al Cie di Gradisca. Ma rispetto a venerdì, quando 9 immigrati erano riusciti a fuggire (uno poi era stato ripreso), la sommossa scoppiata sabato sera non è sfociata in un’evasione. Sventato dalla prontezza delle forze di vigilanza, il tentativo di fuga si è trasformato così in una ritorsione nei confronti delle forze dell’ordine che presidiano il centro immigrati. A farne le spese sei militari della brigata ”Ariete” di Pordenone che, assieme a carabinieri e agenti di polizia, svolgono servizio di controllo e vigilanza all’ex caserma Polonio. Uno di questi militari ha rimediato la frattura del metacarpo, un secondo è stato ferito dietro a un orecchio. Ferite medicate in ospedale anche per un terzo militare, altri tre hanno riportato solo leggere contusioni e escoriazioni. Una trentina di immigrati, armati di spranghe e altri corpi contundenti, era salita sul tetto del Cie poco dopo le 21.30. Nella loro protesta hanno distrutto la centrale termica della struttura, posta proprio sul tetto dell’edificio, causando importanti perdite d’acqua. L’ordine è stato ripristinato, a fatica, solo a tarda notte. Ieri parte gli ospiti, quelli della zona blu, i più esposti ai disordini, sono rimasti chiusi nelle loro stanze e lo saranno fino a nuovo ordine. Per due di loro invece la ”consegna” si è trasformata in arresto perché ritenuti tra i più attivi nella rivolta e per la violenza usata contro le forze dell’ordine. E le polemiche non si placano. Per il deputato Ivano Strizzolo (Pd), vicepresidente della commissione bicamerale Schengen e immigrazione «il Governo, alle prese con le beghe interne, sta trascurando i problemi della gestione della sicurezza nei Cie. Ancora una volta si sono verificati fatti gravissimi a causa della mancanza di uomini e di risorse per garantire la sicurezza e la dignità delle persone, sia per gli operatori che gestiscono il Centro sia per gli immigrati stessi». Strizzolo ha ricordato di «attendere da ottobre 2009» una risposta del ministro Maroni a un’interrogazione parlamentare sul tema del Cie di Gradisca. Nell’esprimere vicinanza e solidarietà ai militari, l’assessore regionale alla Sicurezza, Federica Seganti ribadisce: «A Roma conoscono il problema del Cie di Gradisca e la Regione è pronta a dare una mano. Bisogna entrare nell’ordine di idee che questa struttura non è più quella che fronteggiava, assieme agli altri Cie della penisola, l’emergenza dei clandestini sulle coste italiane. Oggi ospita immigrati con gravi precedenti in attesa di rimpatrio e pertanto anche dal punto di vista strutturale e regolamentare questo e altri centri hanno bisogno di decisioni che ne ripristino una funzione maggiormente detentiva». In stato di agitazione i sindacati di polizia. «Quanto avvenuto è il grave risultato dello stato della struttura – denuncia il Sap -. È cambiato solo il finale, con l’aggressione al personale dell’esercito in servizio. Il tutto con spranghe e oggetti contundenti facilmente reperiti all’interno. Il bilancio di sei feriti è allucinante. Ora – afferma Obit – è giunto il momento dell’azione con regole certe, una diminuzione degli spazi di libertà e la rimozione di tutti i pericoli e i punti deboli. La capienza va ulteriormente ridotta, fino a quando non sia possibile come in passato dividere all’interno i trattenuti, evitando che grosse concentrazioni foriere di azioni violente. Protesta anche il Siulp: «Non ci sono le risorse umane ed economiche che erano state assicurate, neppure per assicurarne la manutenzione e i sistemi di videosorveglianza ». Il Siulp ha rivolto un appello al presidente della Regione, all’assessore regionale Seganti e ai sindaci perchè si facciano carico di sensibilizzare le istituzioni a livello centrale «prima che accada qualcosa di ben più grave».

Luigi Murciano

Il piccolo

L'Aquila: festa della perdonaza, tensione tra cittadini e polizia per gli striscioni di protesta

Hanno urlato "Vergogna", "3,32 io non ridevo", "Bravo Letta", complimenti. Hanno dato le spalle al corteo e hanno interrotto gli applausi che fino a un attimo prima avevano salutato il passaggio della teca di Celestino V seguita dai vigili del fuoco. I cittadini aquilani hanno contestato così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, venuto a rappresentare il Governo al corteo della Perdonanza Celestiniana.

Prima del passaggio del corteo c'erano stati spintoni e tensioni tra i cittadini e le forze dell'ordine in piazza Duomo dove il popolo delle carriole svata aspettando il passagio del corteo della Perdonanza.

In piazza i cittadini hanno esposto una serie di striscioni "Cialente vergogna", "Molinari vergogna", "Letta, vedi di andartene" (scritto in dialetto), "Il gran rifiuto della cricca". Le forze dell'ordine hanno cercato di far rimuovere gli striscioni ma la popolazione ha resistito. Per un momento ci sono stati anche spintoni tra la polizia e folla.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta al suo arrivo in piazza non ha voluto commentare gli striscioni ma si è informato con il sindaco su quanti fossero i contestatori. Il sottosegretario abruzzese ha detto che "Il futuro dell'Aquila sarà degno della sua tradizione. Il presidente Berlusconi tornerà presto all'Aquila"

I cittadini hanno poi difeso gli striscioni con un cordone umano che ha fronteggiato la polizia. Il sindaco Cialente, appena arrivato in piazza, ha cercato una mediazione e ha detto "Non sono il questore non ho responsabilità sugli striscioni tolti, cercherò di mediare. Stiamo calmi, non roviniamo la Perdonanza".

La gente al passaggio di Cialente ha urlato: "Portate via la polizia".

In piazza anche il presidente della Regione Gianni Chiodi. I manifestanti hanno consegnato anche a lui una copia dei volantini che vengono distribuiti. Alcune persone stanno raccontando al presidente di essere stati spintonati dalle forze dell'ordine.

Distribuiti anche dei volantini con la scritta Nessuna passerella per chi rideva quella notte.

"Il corteo della Perdonanza", recitano i volantini, "rischia di trasformarsi nell'ennesima passerella mediatica sulla nostra città. si ha infatti notizia della probabile presenza di esponenti del Governo, gli stessi contro cui abbiamo manifestato a Roma accolti dalle manganellate della polizia. Gli stessi che prima ci hanno colpevolmente tranquillizzato, amici e sodali delle cricche che quella notte ridevano sui nostri lutti pensando ai loro soldi. La presenza di esponenti del Governo sarebbe una provocazione per tutta la città che reagirebbe al grido di "Alle tre e 32 io non ridevo". Invitiamo tutti i cittadini che hanno perso molto con il terremoto ma non la dignità e il rispetto per sè stessi a essere presenti al corteo della Bolla per far sentire forte la propria voce di dissenso verso chi la propria dignità l'ha venduta da tempo al miglior offerente".

fonte: il Centro
 
Video degli spintoni della polizia ai cittadini aquilani : http://ilcentro.gelocal.it/laquila/multimedia/2010/08/28/video/spintoni-tra-polizia-e-manifestanti-per-gli-striscioni-contro-letta-e-la-cricca-25941232/1
 
foto degli scontri: http://ilcentro.gelocal.it/laquila/multimedia/2010/08/28/fotogalleria/perdonanza-in-piazza-duomo-tensione-tra-cittadini-e-polizia-per-gli-striscioni-di-protesta-25941141/10

Ragazzo italiano morto in carcere in francia dopo mesi di vessazioni e minacce

"Il dramma di mio figlio vittima delle guardie carcerarie"
Parla la mamma di Daniele Franceschi, morto nel penitenziario di Grasse

"Mi scriveva per raccontarmi di minacce e intimidazioni continue"
di MARIO NERI

«Subiva soprusi, minacce e intimidazioni dalle guardie. Non lo curavano, non gli facevano avere i soldi che gli mandavo. Era dimagrito moltissimo e si sentiva isolato. Mi diceva: “mamma, qui gli italiani sono considerati feccia, io non muovo un dito, non reagisco, altrimenti finirebbe male”». Suo figlio glielo scriveva nelle lettere che le inviava regolarmente e lo ha ripetuto anche dieci giorni fa, quando era riuscito a procurarsi un telefonino e a chiamarla a Viareggio. Ora Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, l’uomo di 31 anni morto nella martedì in una cella del carcere di Grasse, nell’entroterra di Cannes, parla da Nizza, da un albergo vicino all’ospedale dove è stato trasferito il corpo del figlio e chiede «giustizia».

E’ insieme a una cugina e all’altro figlio Tiziano. «Voglio sapere cosa è successo davvero. L’ambasciata e il governo si attivino, perché i francesi non dicono la verità. Daniele non è morto di un infarto fulminante come dicono. Grazie all’avvocato e a una rappresentante del consolato siamo riusciti a sapere che martedì alle 13,30 si era sentito male. Aveva chiesto aiuto e l’avevano portato in infermeria per un elettrocardiogramma. Ma i sanitari l’avevano rimandato in cella dicendo che non aveva niente. Poi l’hanno trovato solo alle 17,30, dopo 4 ore, steso sulla branda, con il giornale appoggiato sulla faccia. Era morto». La madre di Daniele pensa che i fatti non si siano svolti così, che ci siano lati oscuri che le autorità francesi non vogliono rivelare: «Ma come è possibile che l’abbiano rispedito in cella se stava male, e come è possibile che se ne sia andato per un arresto cardiaco. Daniele non ha mai avuto problemi al cuore, era un ragazzo sano. Solo lì erano peggiorate le sue condizioni. Nelle lettere mi diceva che i soldi che mandavo da Viareggio gli arrivavano dopo un mese, e anche quando riusciva ad averli le guardie lo vessavano. Lui, come tutti i detenuti, li affidava a un secondino per farsi comprare cibo, giornali e sigarette fuori dal carcere. La regola voleva che per la spesa ogni detenuto scrivesse un biglietto. Ogni volta la guardia tornava e dicevano che l’avevano perso e che non avevano potuto prendergli niente. Così non mangiava e si consumava. Dimagriva e aveva sempre più paura».

La signora Antignano è sconvolta, è arrivata questa mattina presto a Nizza e ancora non le hanno fatto vedere il corpo del figlio: «Hanno anticipato l’autopsia di un giorno - denuncia - doveva essere martedì, invece la faranno domani. Inoltre le autorità ci impediscono di nominare un medico legale italiano, dicono che è troppo tardi e che avremmo dovuto portarcelo dall’Italia». Secondo la donna, Daniele subiva intimidazioni continue. «L’ultima volta l’ho sentito al telefono dieci giorni fa. Non so come avesse fatto, ma malgrado le rigide regole carcerarie era riuscito a procurarsi un telefonino da qualcuno che era in carcere con lui. Mi ha raccontato che qualche giorno prima gli avevano trovato in cella alcuni grammi di “fumo” e le guardie carcerarie lo avevano subito accusato dicendo che lo avrebbero messo in isolamento e che l’episodio avrebbe aggravato la sua posizione. Ma nessuno è andato a trovarlo in quei giorni, neanche l’avvocato francese che segue il suo caso da quando è stato arrestato, a fine febbraio. Qualcuno ha messo lì l’hashish, qualcuno lo voleva incastrare. Grazie all’intervento dell’avvocato, la questione sembrava essersi in qualche modo risolta. Ed era stato scagionato da questa accusa. Ma Daniele era molto preoccupato e me lo ha ripetuto svariate volte».

Anche con le visite i francesi sembravano molto rigidi: «Io l’ho visto per la prima e unica volta ad aprile, ma solo dopo varie richieste perché quando era stato incarcerato non mi fecero entrare». E di cose da chiarire nei cinque mesi di reclusione ne sono successe. «Un mese e mezzo fa mi scrisse che aveva avuto la febbre tra 39 e 41, che aveva avvertito i secondini, ma nessuno lo considerava, gli dicevano che il medico non c’era e che doveva stare zitto. Era svenuto, poi per calmare la febbre metteva la testa nel piccolo frigo che aveva in cella. E solo dopo 4 giorni l’avevano curato».

Intimidazioni continue, la minaccia di metterlo in una cella con i detenuti più pericolosi: «Glielo dicevano perché si lamentava per il lavoro in cucina. Lo facevano lavorare a ritmi infernali. Mi scriveva: ”Mamma, io non ce la faccio più, tengo duro solo perché la psicologa dice che mi potrebbero mettere in isolamento o la mia posizione nel processo poi potrebbe aggravarsi. Ma quale aggravarsi. Come è possibile che uno resti in carcere per più di cinque mesi solo per essersi presentato a una casinò con una carta di credito falsa. E come è possibile che poi ci muoia”.

(29 agosto 2010)

APPELLO PER Ali Orgen libero - no all'estradizione

sabato 4 settembre ore 17,30 presidio al carcere di Benevento

Non si può capire l’arresto e la richiesta di estradizione di Ali Orgen se non parliamo del Kurdistan, un paese negato che invece ha un suo popolo, suoi confini, una sua lingua, una sua cultura. Un paese di 40 milioni di persone che ha subìto e subisce il genocidio perpetrato da quegli stati che, come la Turchia ne occupano le terre e ne vogliono distruggere la storia. Per il solo fatto di parlare il curdo, si rischia la prigione. Ogni formazione politica curda è bandita.

Ali Orgen ha scelto come tanti altri curdi di manifestare e lottare per la liberazione del proprio popolo, il riconoscimento dei suoi diritti e l’indipendenza dallo Stato turco. Per questo, nel novembre del ’96 è stato arrestato. Dopo tre anni di carcere duro, in cui viene ripetutamente torturato, è condannato a morte, benché non sia mai stato accusato di alcun fatto di sangue. La condanna viene poi tramutata in ergastolo e successivamente in sei anni di reclusione. È un processo farsa. Al momento della condanna, ad Ali manca da scontare un residuo di pena, ma gli viene abbuonato e quindi viene liberato.

Nel 2003 Ali arriva a Taranto, dove, dopo anni di duro lavoro nei campi, in alcuni pub ed in Ilva apre un phone center, il primo in città, che diventa un punto di riferimento per gli immigrati, in quanto, fra l'altro, questi possono telefonare a prezzi contenuti nei propri paesi. Più in generale costruisce eccellenti relazioni sociali e non solo con gli immigrati.

Nel 2005, in sua assenza, il processo viene riaperto, e in base alla riforma del codice penale turco, alla quale le si dà validità retroattiva,viene condannato a scontare quel presunto residuo.

La mattina del 18 agosto Ali viene arrestato. Su di lui pende una richiesta di estradizione totalmente ingiustificata. Ali rischia di finire nelle carceri turche, di essere torturato e ucciso.

Questo è Ali Orgen. Non quello dipinto come un “terrorista” dai mass media imbeccati dalle note dell’Interpol e dell’Ucigos, silenziosi complici, insieme al governo italiano, del sistema repressivo turco.

Nel più totale silenzio Ali Orgen è stato trasferito dal carcere di Taranto a quello di Benevento. Ciò a conferma del tentativo palese di isolarlo dai suoi affetti familiari e da quella vastissima rete di solidarietà che immediatamente si è creata nei suoi confronti.

Negli anni novanta Ali è stato vittima di un processo ingiusto. Oggi è vittima di una ingiusta richiesta di estradizione che si basa sull'assurda applicazione di un nuova legge liberticida.

Per questi motivi il Comitato di solidarietà ad Ali Orgen indice un presidio per sabato 4 settembre 2010 dalle ore 17,30 presso il carcere di Benevento. Contestualmente fa appello a tutte le forze autorganizzate, di base, antagoniste,ai sinceri democratici alla massima partecipazione al presidio per esprimere e far sentire la nostra solidarietà ad Ali Orgen ed evitare che vada verse certe torture e possibile morte!

Comitato di solidarietà ad Ali Orgen- No all'Estradizione

sabato 28 agosto 2010

Morto nella cisterna, la rabbia "Lavorava anche per due euro"

Accettava qualsiasi incarico pur di portare qualcosa a casa dove l'aspettavano la moglie casalinga e il figlio, disoccupato pure lui. Scoppia la rabbia il giorno dopo la tragedia nella cisterna della morte. Il racconto dei vicini sulla vittima, le accuse della Cgil a Tremonti e la doppia inchiesta per fare luce sull'incidente che poteva essere una strage

L'intervento dei soccorritori

Lavorava alla giornata e accettava qualsiasi lavoro pur di portare qualcosa a casa dove l'aspettavano la moglie casalinga e il figlio, disoccupato pure lui. "Si accontentava anche di due euro all'ora", dicono i conoscenti di Antonio Della Pietra, 51 anni, di Cerignola, il primo a calarsi nella cisterna della morte. Come al solito lui aveva accettato il lavoretto commissionatogli dal proprietario del fondo di San Ferdinando di Puglia, il carabiniere Sabino D'Assisti e suo cognato Sabino Mastrototaro, anche loro finiti in fondo al pozzo e salvi per miracolo. Della Pietra aveva accettato senza battere ciglio, senza preoccuparsi della pericolosità del lavoro, l'importante era tornare a casa la sera sporco, con la schiena spezzata e in tasca una cinquantina di euro. Quando andava bene era così. "Aveva accettato lavori ben più pericolosi e gli era andata sempre bene, brava persona e grande lavoratore, si vede che era arrivata la sua ora", scuotono la testa i vicini tra rassegnazione e fatalismo.

La cisterna della morte ora è sotto sequestro e l'inchiesta affidata al sostituto procuratore della Repubblica Alessandra Fini.Tra domani e sabato dovrebbe essere compiuta l'autopsia dai medici legali degli Ospedali Riuniti di Foggia.

Accertamenti sono stati avviati anche da parte del Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (Spesal) della Asl di Barletta. Gli altri due feriti sono ancora ricoverati in ospedale, uno a Foggia e l'altro a Cerignola.

L'accusa della Cgil a Tremonti. "Ancora una storia indicibilmente amara e dolorosa, l'ennesima morte bianca che sconvolge il mondo del lavoro della provincia di Barletta-Andria-Trani": lo afferma Luigi Antonucci, segretario generale Cgil della provincia, esprimendo "sincero cordoglio per la morte dell'operaio, Antonio Della Pietra, di 51 anni, di Cerignola (Foggia, avvenuta ieri in una cisterna. "Paradossalmente, mentre nella nostra provincia - aggiunge Antonucci - si consumava l'ultima tragedia sul lavoro, il Ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, affermava che 'robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci'".

"Preferiamo - prosegue Antonucci - non commentare questa affermazione del Ministro della Repubblica. Noi della Cgil vogliamo, invece, focalizzare l'attenzione sul fatto che continua ad allungarsi la scia di sangue che tinge di rosso il mondo del lavoro nella nostra provincia. Non possiamo, però, parlare sempre di tragica fatalità". "Siamo convinti - conclude il numero uno del sindacato - che fatti come quello accaduto ieri a San Ferdinando di Puglia siano destinati a ripetersi tristemente se non si interviene sull'adeguamento delle aziende alle leggi in materia di sicurezza e se non si punta sulla formazione delle lavoratrici e dei lavoratori".

L'assessore: presto nuove norme. - "Le vite umane sono un lusso? La Puglia, invece, è ricca d'amore e nei prossimi giorni approverà una nuova legge sulla sicurezza e per la qualità del lavoro". Lo annuncia l'assessore al Lavoro della Regione Puglia, Elena Gentile, rispondendo alle dichiarazioni fatte sull'argomento dal ministro Tremonti e, all'indomani della morte avvenuta in Puglia, di un operaio in una cisterna pluviale e di un immigrato in un vascone irriguo. Il disegno di legge che la Puglia si appresta a varare segue l'istituzione di un fondo di solidarietà per le famiglie delle vittime di incidenti sul lavoro voluto dalla giunta guidata da Nichi Vendola, e la decisione dell'esecutivo pugliese di costituirsi parte civile nei processi riguardanti gli incidenti sul lavoro.

Il disegno di legge - annuncia l'assessore Gentile - "implementerà in maniera sostanziale le norme per la sicurezza nei luoghi del lavoro e riguarderà non solo il sistema delle imprese ma anche gli enti pubblici e, quindi, tutte le stazioni appaltanti". Una particolare attenzione verrà posta per quanto riguarda la sicurezza nelle campagne "luoghi - afferma Gentile - diventati, soprattutto in Puglia, 'cantieri' a maggiore rischio". Il ddl che la giunta Vendola, su proposta dell'assessore Gentile, si appresa ad approvare prevederà, in particolare, obblighi per i proprietari di vasconi e pozzi: dovranno, ad esempio, impiantare una cartellonistica che dia indicazioni precise, con disegni e frasi scritte in più lingue, del rischio di pericolo di morte.


DA:http://bari.repubblica.it/cronaca/2010/08/26/news/morto_nella_cisterna_la_rabbia_lavorava_anche_per_due_euro-6530412/

IL LUSSO DELLA SICUREZZA

Le parole si dicono, si ritirono, si fraintendono e si smentiscono, ma in qualche modo sono sempre significative. Sembra, si dice, si dice che si dica, che il ministro Tremonti abbia affermato che la legge 626 che tutela la sicurezza sul lavoro sia per un Paese come l’Italia un lusso che non possiamo permetterci. Prontamente smentita dallo staff del ministro come sempre succede. Non ce l’ho col ministro, ma questo è proprio il modo di pensare che ha provocato e continua a provocare tanti morti, invalidi e feriti sul posto di lavoro.

È un modo di pensare che accomuna molti imprenditori, politici, amministratori ma anche lavoratori e sindacalisti. Pensare che lavoro significhi soltanto produzione e alla fine soldi.

Il lavoro non è soltanto un modo come un altro per vivere, è un modo di vivere. È quello che ci organizza le giornate, è il posto in cui incontriamo la stessa gente tutti i giorni, e quello che raccontiano ai nostri quando torniamo a casa.

Il lavoro è vita e la qualità del lavoro è la qualità della vita. Vale per i lavoratori, per i padroncini e anche per gli imprenditori, in modi diversi, naturalmente. E se quegli orari sono infernali, se quel posto è brutto e pericoloso e se quando torniamo a casa siamo troppo stanchi per raccontare, allora è lì che va fatta la battaglia per migliorare il lavoro. Perché se il prezzo che devo pagare per vivere è finire al manicomio, in ospedale, su una sedia a rotelle o al cimitero, allora sì che il lavoro mi costa troppo. Che non produce abbastanza.

Ma se lavorare significa solo fare soldi, soldi e basta, magari in concorrenza con posti in cui il lavoro è quello degli schiavi, allora sì che la sicurezza dei lavoratori è un costo. Allora sì che la vita è un lusso.

DI CARLO LUCARELLI
27 AGOSTO 2010

Tessera del tifoso, Maroni cola a picco senza saperlo

La pesante contestazione di Bergamo al ministro degli Interni Roberto Maroni è stata metabolizzata dai media nella maniera migliore possibile. Taglio di prima, sia nei giornali che in tv, ma sempre entro una gerarchia di notizie la più bassa che si possa dare in questi casi.

Eppure non è che in Italia siano stati tanti i ministri degli interni contestati a quel modo e, praticamente in casa loro, alla festa del proprio partito di riferimento. Roberto Maroni è inoltre riuscito in una impresa, e su scala globale, fino ad oggi inarrivabile per un ministro degli interni: farsi contestare duramente e spettacolarmente, con tanto di disordini e macchine incendiate alla sua presenza, da una tifoseria di calcio. Immaginiamo cosa sarebbe successo in Inghilterra se, dopo le leggi che seguirono alla tragedia dell’Heysel, il segretario dell’home office britannico (corrispondente al nostro ministero degli interni) avesse subito una contestazione simile da parte degli hooligans. Tra proteste della stampa e dell’opposizione il governo sarebbe caduto in poche ore perché debole, inetto e incapace di governare l’ordine pubblico su un tema all’ordine del giorno. Ma nell’Italia di oggi basta far scivolare prima possibile le notizie in tv verso i titoli di coda e, complice un’opposizione inerte, tutto velocemente scompare fino ai prossimi incidenti. Resta però la netta impressione che la tessera del tifoso contribuisca seriamente a formare la Caporetto del ministro Maroni Roberto.

La cronaca, ma non il caso, ha voluto che la contestazione di Bergamo sia andata in contemporanea con la bomba sotto la casa del Procuratore Generale di Reggio Calabria. E qui hai voglia di retorica ma chi deve decodificare le notizie sa cosa tutto questo significa: il ministero degli interni ha un controllo piuttosto basso del territorio dal (solo miticamente) compatto nord a Reggio Calabria. Dal punto di vista capitalistico non potrebbe essere altrimenti visto che i tagli agli organici di polizia hanno effetto proprio sul controllo del territorio. La strategia aggressiva sugli stadi, che richiede controllo del territorio, mostra quindi dei deficit strutturali dovuti a mancanza di risorse. Anche quella d’immagine, l’ultima che oggi politicamente tiene, è una strategia che comincia a non pagare: un ministro che aizza e provoca le tifoserie e si ritrova preso a sberle in casa propria (la Bérghem fest leghista) decisamente non regala proprio un’impressione di forza. Cossiga, quando era ministro dell’interno, provocava ma mandava i carri armati per le strade. Maroni si trova invece impigliato tra disfunzioni amministrative, tornelli, tessere, dichiarazioni roboanti e impotenza reale. Mentre dall’altro capo della penisola la ‘ndrangheta fa capire chi comanda sul territorio in Calabria (la ‘ndrangheta lo controlla con una struttura di oltre 150 clan, un fatturato di 50 miliardi di euro ed è definita dalle polizie di tutto il mondo come una delle più efficienti mafie globali. Mentre Maroni, assieme a Berlusconi, dice in tv “sconfiggeremo la mafia in 3 anni”.).

La tessera del tifoso si rivela così uno strumento non tanto utile per nuovi dispositivi repressivi, almeno non oggi. Resta in piedi solo per uno scopo: come un tentativo di creare nuovi flussi di cassa per gli istituti bancari, tramite la tessera, con il pretesto della sicurezza. Da questi flussi si dovrebbero creare marketing aggiuntivi, anche di prodotti finanziari (la tessera funziona anche come carta revolving). L’ideologia della sicurezza diventa la killer application per giustificare questi prodotti. Se non sei d’accordo con la tessera parte un coro, da Repubblica al Giornale come dal tg3 al tg5, per dimostrare sei dalla parte dei violenti e quindi degno di emarginazione.

La parentela diretta del presidente della Figc con il presidente dell’associazione bancaria italiana è il miglior suggello reale di tutta questa operazione. A Maroni è toccato il lavoro sporco di liberare le parti in affari dagli effetti collaterali di questo accordo, oltretutto familiare. Ma così facendo si è infilato in una vera e propria prova dell’ordalìa.

Molte misure legate alla tessera, come abbiamo visto nelle stagioni recenti, potenzialmente rischiano di creare incidenti anche maggiori rispetto all’epoca del vecchio ordinamento (come la proibizione dell’acquisto di biglietti in trasferta nei settori ospiti in alcune partite. Che ha messo molte tifoserie a contatto perché chi va in trasferta non va nel settore ospiti che è chiuso). Lo scioglimento dei gruppi ultras, a seguito della tessera del tifoso, può poi creare un effetto “guerriglia inafferrabile” proprio perché vengono a mancare i gruppi storici di riferimento ai quali attribuire responsabilità in caso di incidenti. Inoltre la tessera del tifoso ha comportato un ribasso del 20% degli abbonamenti, un flusso di cassa in negativo non male per le società, e crea quell’effetto “stadio vuoto” che rende il prodotto meno vendibile in televisione. Il che è grave quando si sposta una partita della domenica alle 12,30 per il mercato asiatico. Al momento, come prodotto televisivo, tra Premier League e Serie A non c’è gara e di questa inferiorità ne sono consapevoli anche gli italiani. Ma soprattutto lo sono i pubblicitari. Può finire così che per riempire gli stadi, una volta finita l’esperienza Maroni, si cambi strada rispetto a questo vicolo cieco. Uno dei tanti creati dal mito dell’efficienza padana che, non è un caso visto che siamo parlando di soggetti terminali della politica, ha trovato sterminate file di creduloni anche a sinistra.

L’impressione quindi è che la carriera politica di Maroni come ministro degli interni sia al declino. Tra contestazione sulla tessera del tifoso, problemi strutturali di controllo del territorio, contributo demenziale allo svilimento del calcio come cultura e come prodotto. D’altronde solo il PD, come fa, può credere che la Lega sia efficienza e radicamento sul territorio. Quanto al radicamento sul territorio l’abbiamo visto alla Bérghem fest, si sono fatti contestare un ministro in casa e alla presenza di altri due, mentre per l’efficienza la vicenda tessera del tifoso mostra che la l’unica cosa che la Lega oggi sa fare è la propaganda. Che, come abbiamo visto, alla fine è destinata ad incontrarsi con i problemi reali ed a svanire come neve al sole. Probabilmente Maroni non si accorge di tutto questo, essendo preso dal ruolo di ministro di polizia e dal fatto di essere mentalmente prigioniero della stessa propaganda della Lega. Fino a che si troverà un’opposizione così inerte può però dormire tranquillo. Anche se, da segnali come quello di Bergamo ed altri ben più istituzionali, si comprende come la sua stagione al Viminale possa aver imboccato il viale del tramonto. Sarebbe l’ora: un ministro dell’interno che va alle feste del suo partito con addosso i simboli secessionisti, quelli dai quali dovrebbe difendere il paese che rappresenta, è un’altra perla rara che, al momento della sua scomparsa, è certo destinata a non essere rimpianta.

RENATO VIVE!!!

Parco Schuster (San Paolo) Via Ostiense, 182 Rome, Italy

Il 27 Agosto di quest'anno saranno 4 anni che Renato è stato ucciso; un’aggressione fascista che si è trasformata in assassinio.

Quattro anni di vita, di lotte, di sorrisi e di lacrime, di rabbia, di processi, di partenze e ritorni, di nuovi arrivi e nuove nascite, di sogni realizzati e altri lasciati in sospeso ma mai persi.

Quattro anni di cambiamenti, di crisi, di crescente delirio securitario.

Quattro anni in cui, nonostante il... passaggio di questa città ad un’amministrazione di destra, i sani anticorpi antifascisti hanno continuato a difendere e a tenere viva la memoria di questa città ribelle e mai domata, di questa Roma Città Aperta.

Quattro anni di abbracci e sguardi forti, intrecciati con le storie di Dax, Carlo, Federico, di Carlos e Alexis, di Nicola, Aldo, di Stefano e di tanti altri purtroppo, per non dimenticare, per raccontare la verità, per chiedere giustizia.

Quattro anni in cui il nome di Renato ha risuonato ovunque, perché la sua storia è un pezzo di quell’ingranaggio collettivo che anima questa città e non solo.

Partigiani dei nostri tempi, con le radici forti strette alla memoria della Resistenza e con le ali robuste per volare e lottare nel tempo della crisi.

Per questo, anche quest'anno, vogliamo organizzare un appuntamento pubblico nel territorio in cui viveva Renato:

Sabato 28 Agosto a Parco Schuster (San Paolo) con mostre, banchetti, buon cibo accompagnati dall’esibizione a partire dalle 18 di:

-Rock MC
-Mandrillos
-Taxi de brusse
-Palcoscenico al neon
-Reading resistente
-Ill Nano feat. Rancore
-Assalti frontali
-Ardecore

Una serata di musica e parole in una serata di fine agosto, come quella che ci ha portato via Renato in cui dare voce alle lotte e ai percorsi che portiamo avanti durante tutto l’anno, e dare spazio alle note di chi suona nella sala prove Renoize e non solo.

Finchè ci saranno quelli/e come noi, ci sarà sempre il tempo di far vivere chi troppo presto, ingiustamente e con un’assurda e inconcepibile violenza ci è stato tolto.

Finchè ci saranno quelli/e come noi, si potrà sempre dire: “è una questione di memoria”.

L’invito quindi è quello ad esserci, ancora una volta, anche quest’anno!

Per ribadire che non facciamo un passo indietro e abbiamo gli occhi ben aperti, che i sogni di Renato vivono in noi, perchè chi pensava di fermarci ci vedrà muovere, chi pensava di zittirci ci sentirà urlare la verità!


“Per combattere questo nuovo fascismo non ci saranno i vostri nonni, o i padri dei vostri nonni. Affrontarlo toccherà a voi. “ Enio Sardelli “Partigiano Foco”

venerdì 27 agosto 2010

Cisgiordania: proibito criticare Abu Mazen

Ramallah - E’ vietato in Cisgiordania mettere in discussione le decisioni del presidente dell’Anp Abu Mazen. L’altra sera a Ramallah i servizi di intelligence dell’Anp, hanno impedito ad alcune centinaia di persone di partecipare ad una conferenza, promossa dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e da altre formazioni della sinistra palestinese, che prevedeva la presenza di una serie di esponenti politici contrari alla ripresa dei negoziati diretti tra Abu Mazen e il premier israeliano Netanyahu, prevista il 2 settembre a Washington. Gli agenti hanno circondato la sala dove doveva tenersi la confe! renza e costretto ad allontanarsi i presenti, alcuni dei quali sono stati malmenati e minacciati. «Volevamo soltanto discutere dei negoziati diretti ed esprimere il nostro dissenso nei confronti di una decisione (di Abu Mazen) che non condividiamo e che riteniamo dannosa per le aspirazioni del popolo palestinese», ha raccontato la parlamentare del Fplp, Khalida Jarrar. Le forze di sicurezza hanno anche impedito ad alcuni ricercatori del centro per i diritti umani al Haq di filmare quanto stava accadendo. «Tutto ciò conferma l’aggravarsi del clima di intimidazione che si è creato in Cisgiordania e la trasformazione dell’Anp in uno stato di polizia», ha denunciato al Haq. L'accaduto è stato condannato dai dirigenti di Hamas a Gaza, che avevano organizzato un'analoga iniziativa nella Striscia con un collegamento in videoconferenza tra i due eventi.

Bologna: i detenuti vogliono lavorare, ma il Dap taglia i fondi

Redattore Sociale, 27 agosto 2010
Solo 1 su 5 tra i detenuti ammessi al lavoro è impiegato in un’attività. Colpa del sovraffollamento. Ma anche dei tagli: Desi Bruno segnala, infatti, che le risorse disponibili sono ulteriormente diminuite rispetto alla fine del 2009.
“Non ho dati precisi, ma la Direzione della Casa circondariale della Dozza segnala un ulteriore taglio, oltre a quello avvenuto a fine 2009, nel capitolo di bilancio relativo al lavoro in carcere”. Desi Bruno, garante dei diritti dei detenuti in carica fino al 31 agosto, pubblica i dati sulla popolazione carceraria bolognese e si sofferma in particolare sul tema “lavoro” che, afferma, “da diritto per vivere la detenzione in modo dignitoso e dare un contributo alla collettività, è sempre più spesso una mera concessione”.
Oltre a essere necessario per una popolazione carceraria poverissima, il lavoro è un aspetto fondamentale del trattamento previsto dalla normativa penitenziaria. A Bologna, però, su una popolazione totale di 1.126 detenuti (per una capienza di 483) circa la metà (557) sono iscritti nelle liste del lavoro (407 generici e 150 qualificati), ma di questi solo 111 lavorano (45 come addetti alle pulizie e 66 in lavori che richiedono una qualifica, come il barbiere o il cuoco). Le cause? Secondo la garante, “il sovraffollamento e la mancanza di fondi”.
La Dozza è tra i carceri più sovraffollati del Paese: in celle di 10 mq di superficie sono rinchiusi 2 o anche 3 detenuti con il conseguente peggioramento delle condizioni di vita e privacy e l’insorgere di problematiche di carattere igienico. Da segnalare, inoltre, l’elevata percentuale di detenuti stranieri (63%) e di tossicodipendenti (25-30%) che, sottolinea la garante, “dovrebbero trovare collocazione in strutture di recupero o essere sottoposti a programmi di cura”. Altro dato importante: è aumentato il numero delle persone con condanna definitiva (oltre 500) rispetto a quelle in custodia cautelare.
Come già segnalato con un comunicato dello scorso 25 agosto in cui definiva “inutile” il disegno di legge del ministro Alfano sull’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a 1 anno, il garante torna a parlare di misure alternative. Secondo la garante, alla Dozza oltre la metà delle persone con sentenza definitiva sono nei termini per essere ammessi a tali misure, avendo una pena da scontare, anche come residuo di una condanna maggiore, inferiore a tre anni. “Le ragioni della scarsa concessione di queste misure da parte del Tribunale di sorveglianza – afferma Desi Bruno – sono da ricercare in una legislazione sempre più restrittiva”.
Un utilizzo puntuale delle misure alternative alla detenzione e la riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere (prevista come extrema ratio dal nostro sistema) sono le misure che il garante indica come necessarie per ridurre nell’immediato i numeri del sovraffollamento. “A queste misure – conclude – deve aggiungersi l’adozione di politiche di contingentamento degli ingressi presso la locale Casa circondariale in un’ottica di contenimento delle presenze”.

Sulmona: secondo autopsia detenuto è morto per edema polmonare, la droga non c’entra

Il Messaggero, 27 agosto 2010
L’autopsia conferma in linea di massima la morte per cause naturali: un edema polmonare, probabilmente, è ciò che ha stroncato la vita di Raffaele Panariello, trentenne di Castellamare di Stabia trovato morto l’altro ieri in una cella del reparto internati del carcere di Sulmona.
L’esame autoptico eseguito ieri da Ildo Polidoro non ha mostrato segni apparenti di morte per cause indotte, ma saranno comunque gli esami istologici e tossicologici (tra sessanta giorni) a dire se quella “morte naturale” sia stata “aiutata” da qualche fattore esterno. Si pensa alla droga in particolare, per i precedenti dell’uomo e perché l’ipotesi del soffocamento per inalazione di gas (sostenuta dalla Uil penitenziari) è stata esclusa dal medico legale.
Il cuore del trentenne ha ceduto, forse stressato dall’edema e dal suo fisico debilitato. Alle analisi stabilire poi se l’eventuale assunzione di droga abbia contribuito a indebolirlo. Ma una morte dietro le sbarre, dietro le sbarre di Sulmona, non può passare inosservata, anche se naturale. Perché se quel cuore ha ceduto è stato forse anche a causa delle difficoltà nella gestione sanitaria dell’istituto, che continua ad essere sovraffollato di reclusi (oltre 450 attualmente) e carente in personale medico e di polizia.
“Speravamo dopo i dati di qualche giorno fa che parlavano di 275 detenuti a Sulmona che ci fosse stato un alleggerimento sul sovraffollamento, in realtà evidentemente non è così, la situazione è e resta drammatica - scrive Giulio Petrilli, responsabile provinciale per i diritti e le garanzie del Pd - Sulmona rimane quel carcere che quando entri nelle sezioni vedi che tutti gli orologi grandi nei corridoi sono fermi, un gelo ti assale, vorresti chiedere il perché a chi ti accompagna ma non ne hai il coraggio, perché capisci da solo il significato”. Il tempo si è fermato a Sulmona e nonostante le proteste, i proclami e le promesse (che fine ha fatto il piano carceri sbandierato da qualche parlamentare nostrano?)

giovedì 26 agosto 2010

PeaceReporter - video

PeaceReporter - video

Immigrazione: se lo straniero ha l’aids non ha diritto al permesso di soggiorno


Affetto da Aids, ma non può restare in Italia per cure specifiche: è un clandestino e, per questo, dovrà tornare in Cina, la propria terra d’origine, ed è lì che riceverà l’assistenza sanitaria necessaria. Nessuna dispensa, nessuno strappo alle norme, nessuna pietà, nessuna scappatoia, nessuna concessione all’abusivo, seppure si trovi bloccato nel letto del reparto infettivi di un ospedale. Lo hanno stabilito i giudici del Tar (Tribunale amministrativo regionale) dell’Abruzzo, sezione di Pescara, respingendo la richiesta di permesso di soggiorno di un extracomunitario da 9 anni nel nostro Paese e ora ricoverato a Chieti.
L’uomo era arrivato bypassando le leggi. Facendo ricorso all’arte di arrangiarsi e degli espedienti, anche con il lavoro. Irregolare, da lungo tempo, e finché le condizioni di salute glielo hanno consentito ha tirato avanti. Adattandosi, sistemandosi alla bell’e meglio. Ma, lentamente, il virus dell’Hiv ha fatto il proprio corso. Lui è peggiorato ed è stato costretto a rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica. Non può più nascondersi, adesso. Non può più servirsi di stratagemmi. Non può sfuggire ai controlli. La sua vicenda, che si snoda tra illegalità e povertà, è emersa appena ha messo piede in ospedale. Da qui un tentativo, ovvero il ricorso alla magistratura per non essere espulso. Per non incappare nei guai che già s’intravedevano. “Devo curarmi -, ha fatto presente - e, per ciò, devo rimanere dove sono e dove vivo da un pezzo”. Ci ha provato. Ma il collegio giudicante, presieduto da Umberto Zuballi, non ha accolto l’istanza. Richiesta respinta. “Le ragioni della solidarietà - , dice il dispositivo del Tar - non possono essere sancite al di fuori di un bilanciamento dei valori in gioco. Tra questi, la difesa dei diritti umani, la tutela dei perseguitati e l’asilo, ma anche, e non di minore rilevanza, il presidio delle frontiere (nazionali e comunitarie), la tutela della sicurezza interna del Paese, la lotta alla criminalità e lo stesso principio di legalità per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione deteriore rispetto a chi la elude”.
Aiuto sì, fratellanza sì, sostegno sì, ma i sentimenti e la benevolenza non gli consegneranno i documenti di cui ha bisogno e nei quali sperava, facendo appello alla gravità della patologia che lo consuma e al dramma che lo accompagna. Dalla scure della denuncia e del rimpatrio non lo salveranno neppure la disperazione e la malattia, che si sono insieme acuite. Perché prima del suo bene - hanno decretato sostanzialmente i giudici - c’è il bene comune, nelle sue molteplici sfaccettature, e c’è la legge. La Costituzione garantisce anche ai clandestini l’assistenza medica indispensabile. “Tuttavia, - evidenzia il Tar - , la concessione di un permesso per cure è prevista solo per speciali ragioni umanitarie, quando cioè quel tipo di cure non sia possibile nella patria d’origine”.
“E - aggiunge - in questo caso, risulta da accertamenti effettuati dai Consolati italiani in Cina che le cure dell’Aids siano praticabili e disponibili anche in quel Paese”. I giudici dunque tracciano un solco preciso nella concessione dei permessi di soggiorno e fissano i princìpi imprescindibili, intorno ai quali deve ruotare l’ingresso in Italia dei cittadini extracomunitari.
“Questo collegio - viene ancora spiegato - si rende ben conto che il rilascio di un permesso di soggiorno a qualsivoglia titolo farebbe uscire il ricorrente dalla clandestinità, rendendogli più agevole la permanenza in Italia, ma allo stato, ferme restando le possibilità di cura, l’ordinamento non consente di tenere conto di questi interessi, in assenza dei requisiti di legge per ottenere un permesso di soggiorno per ragioni di lavoro o simili”.
Il Manifesto, 25 agosto 2010

UDINE:Pestaggio in carcere, secondini manganellano un ragazzo e poi lo imbottiscono di psicofarmaci

Noi detenuti della casa circondariale di Tolmezzo abbiamo deciso di scrivere questa lettera dopo l'ennesimo pestaggio avvenuto nelle carceri italiane.
Dopo i casi di Marcello Lonzi a Livorno, di Stefano Cucchi a Roma e di Stefano Frapporti a Rovereto e di tanti, troppi altri in giro per la penisola, siamo costretti a vedere con i nostri occhi che la situazione carceraria in italia non è cambiata per niente. Mentre da una parte ci si aspetta dai detenuti silenzio e sottomissione per una situazione inumana (quasi 70.000 prigionieri a fronte di nemmeno 45.000 posti, percorsi di reinserimento sociale pressochè inesistenti, scarsissima assistenza sanitaria, fatiscenza delle strutture ecc...) si ha dall'altra il solito trattamento vessatorio da parte del personale penitenziario, non giustificabile con la solita scusa sulla scarsità di uomini e mezzi.
Denunciamo quello che, ancora una volta, è successo venerdì 13 agosto proprio qui a Tolmezzo, dove un ragazzo, M.F., è stato picchiato con tanto di manganelli nella sezione infermeria.
Se come per altre volte i protagonisti dell'aggressione erano, tra gli altri, graduati ormai noti ai detenuti per le loro provocazioni, l'altra costante è stata la completa assenza del comandante delle guardie e della direttrice dell'istituto.
La nostra situazione è fin troppo pesante per accettare la sottomissione fisica dopo quella psicologica. Per noi tacere oggi potrebbe voler dire ricevere bastonate domani se non fare la fine dei vari Stefano o Marcello domani l'altro.
Noi non ci stiamo e con questa nostra ci rivolgiamo a chiunque nel cosidetto mondo libero voglia ascoltare, affinchè la nostra voce non cada morta all'interno di queste mura.

Alcuni detenuti del carcere di Tolmezzo

Tessera del tifoso, Maroni contestato a Bergamo. Auto in fiamme

E così la tessera del tifoso, operazione commerciale per risollevare i profitti delle banche spacciata per necessaria, ha provocato la prima seria contestazione di sempre al ministro Maroni.
E' avvenuto in quello che il Carroccio pensava essere un suo feudo, la città di Bergamo, nientemeno che nel cuore della Berghemfest leghista. Evidentemente i feudi inespugnabili della Lega esistono solo sul fido Tg1 di Minzolini. Poi quando si va alla prova del territorio le cose stanno diversamente.
I fatti li apprendiamo dalle agenzie di stampa. Contestazioni e auto in fiamme.
Maroni fa il duro "io con loro non parlo" e allo stesso tempo dice di non capire. Eppure è il primo ministro degli interni al quale è stato interrotto un comizio da svariati decenni. Quando si negano i diritti elementari di cittadinanza, e addirittura si pretende che la gente paghi per essere schedata, quando si vuol trasformare una passione popolare nello stato terminale di un business per le aziende amiche capita che la gente poi si rivolti e faccia sentire la propria voce. Troppe volte, salvo lodevoli eccezioni, ai leghisti è sempre andata sul velluto. Forse si sono troppo abituati a provocare nel silenzio. Un bagno di realismo non farà loro male.

(red) 25 agosto 2010


le fonti.

Tifosi Atalanta a Festa della Lega interrompono comizio di Maroni

BERGAMO - Ultrà dell'atalanta hanno interrotto Il comizio del ministro Roberto Maroni al Berghem fest di Alzano Lombardo. I tifosi hanno fatto irruzione alla festa leghista con una scarica di petardi e fumogeni che hanno bloccato l'intervento del numero uno del viminale. L'improvviso scoppio di alcuni petardi ha allarmato gli agenti della scorta.

Maroni ha detto "questi non sono tifosi, i tifosi veri sono altri". La protesta è stata dettata evidentemente dall'introduzione della tessera del tifoso. "Mi sforzo di capire le loro ragioni ma francamente non le capisco" ha detto poi maroni al pubblico della festa della lega che lo ha applaudito copiosamente. Gli uomini della scorta di Maroni sono posizionati intorno al ministro per proteggerlo da eventuali azioni.

Mentre il ministro stava parlando, in platea si sono sentite nove esplosioni dietro al palco. Le forze dell'ordine si sono subito schierate e ora ci sono alcune automobili in fiamme [secondo altre fonti tratta di auto della polizia, ndr]. I tifosi, diverse decine secondo alcuni testimoni, si erano radunati in un bar del paese per poi dirigersi verso la festa, che ospitava il ministro dell'Interno.

http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/25/news/tifosi_atalanta-6513841/?ref=HRER2-1

altre fonti

http://www.corriere.it/cronache/10_agosto_25/fumogeni-berghem-fest_9eb87e24-b088-11df-817a-00144f02aabe.shtml

http://www.infooggi.it/articolo/scontri-a-bergamo-ultra-delle28099atalanta-interrompono-comizio-di-maroni/4797/

http://www.blitzquotidiano.it/politica-mondiale/tessera-tifoso-ultras-atalanta-maroni-518280/

http://www.reset-italia.net/2010/08/25/tifosi-atalanta-a-festa-della-lega-interrompono-comizio-di-maroni/

http://www.cronacalive.it/scontri-ad-alzano-lombardo-durante-berghem-fest-per-protesta-ultras-atalanta-auto-polizia-in-fiamme.html

mercoledì 25 agosto 2010

(chiapas) resistenze dal basso

La Jornada – Martedì 24 agosto 2010

Municipi del Chiapas si oppongono alla CFE

Hermann Bellinghusen

Riuniti nel Forum della Resistenza Civile, che si è svolto nella comunità Señor del Pozo (municipio di Comitán, Chiapas), rappresentanti di 15 municipi, aderenti all'Altra Campagna dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale questo fine settimana hanno deciso di “non negoziare oltre le elevate tariffe dell'energia elettrica”, e sollecitano “tutti i villaggi ad organizzarsi e formare tecnici per resistere alle aggressioni della Commissione Federale di Elettricità (CFE) e delle diverse istanze di governo”. Dunque, non permetteranno l'installazione dei contatori digitali e controlleranno le proprie comunità “attraverso la vigilanza della nostra stessa gente”.

Le comunità si sono dichiarate pronte ad “espellere le multinazionali che arrivino qui a rubare ed abusare”, ed hanno avvertito che non prevedono “nessuna negoziazione col malgoverno”, perché questo “amministra e manipola” i loro diritti.

Si sono pronunciati per un processo organizzativo con tutti quelli che sono in resistenza: “Non pagheremo fino a che non saranno applicati gli accordi di San Andrés e non ci sarà democrazia, giustizia e libertà”, ed anche per un maggiore controllo del loro territorio; la difesa delle risorse naturali; la fine della repressione e della militarizzazione; la libertà dei prigionieri politici e la libertà di espressione; l'autonomia e l'autodeterminazione dei popoli, così come il rispetto dei diritti delle donne e dei loro processi organizzativi.

Invitano “a lottare per una nuova Costituzione, un congresso costituente ed un piano nazionale di lotta per esercitare i nostri diritti come cittadini” con un governo “che comandi obbedendo al popolo e non agli impresari ed ai ricchi”.

Hanno partecipato al forum rappresentanti delle regioni Frontiera, Altos, Sierra, zona Nord e dello stato di Campeche. “In tutti i municipi del Chiapas sopportiamo elevate tariffe dell'energia elettrica; noi popoli in resistenza per oltre 15 anni abbiamo firmato accordi e patti col governo dello stato ma nessuno è mai stati applicato”.

Denunciano che ora “il governo ci sta sottraendo le nostre risorse naturali attraverso il Programma di Certificazione dei Diritti Ejidali e Assegnazione di Casolari Urbani ed il Fondo di Aiuti per i Nuclei Agrari senza Regolarizzare, dove cerca zone strategiche con potenziale di risorse che ci sottrae per consegnarle ad imprese straniere e gruppi di potere che governano il Messico”.

Denunciano che il Chiapas “si sta trasformando in un grande centro commerciale”, invaso dai grandi magazzini. Le comunità subiscono “l'esproprio di spazi nei mercati, spazi sportivi e naturali”.

I partecipanti al forum sostengono: “il governo implementa progetti che favoriscono le multinazionali, pregiudicando villaggi e comunità. Le economie contadine sono in crisi perché non sono competitive rispetto alle grandi imprese”, mentre i prodotti essenziali “sono ogni giorno sempre più cari, le tasse più alte, l'educazione e la salute più carenti e privatizzate ed i salari più bassi”.

Avvertono: “allo scopo di tenerci buoni ed impedire che ci organizziamo, il governo distribuisce progetti e si aprono bar e locali per favorire l'alcolismo, la tossicodipendenza, la divisione, la prostituzione, la delinquenza e tutto questo porta come conseguenza un clima di insicurezza”.

(Traduzione “Maribel” - Bergamo)

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