domenica 17 aprile 2011

Napoli, 3mila in corteo contro la guerra in Libia

Ieri 16 Aprile oltre tremila persone, in maggioranza giovani studenti, hanno sfilato nelle strade di Fuorigrotta e Bagnoli per ribadire la loro contrarietà alla guerra in Libia.
Il corteo, aperto da uno striscione in ricordo di Vittorio "Utopia" Arrigoni, ha sfilato scandendo slogan contro tutte le guerre "umanitarie".
Durante il percorso abbiamo voluto "svelare"la vera natura degli interessi economici che muovono anche la guerra in libia, attraverso azioni simboliche di sanzionamento.
Una filiale dell'Unicredit, un concessionario della FIAT, la sede di Bagnoli Futura sono state colpite da un fitto lancio di uova.
Il corteo è giunto alla base NATO di Bagnoli, base da cui vengono coordinate le azioni militari contro la Libia, per ribadire che la presenza di basi militari (italiane, statunitensi o NATO) sono una presenza di morte sui territori.
Domani si terrà un'assemblea pubblica all'Università Orientale, aperta alle sensibilità politiche e sociali più diverse, in cui ci si confronterà su come rilanciare la mobilitazione contro la guerra.
Da Stop the War

Contro l’intervento in Libia

Relazione di Osvaldo Pesce alla tavola rotonda del 4 aprile 2011

Milioni di persone sono scese in piazza in vari paesi arabi, con rivendicazioni sociali e solidarietà tra i popoli. Questo è un fatto nuovo di grande importanza. Movente primario è stata la crisi economica globale del sistema capitalistico partita dagli USA, in particolare il raddoppio dei prezzi dei generi alimentari, dovuto al rincaro internazionale aggravato da siccità e incendi in Cina e Russia.

Potrebbero aver influito anche i tentennamenti di Washington rispetto all’impegno in Medio Oriente e lo spostamento della sua attenzione sul Pacifico.

La rabbia popolare ha abbattuto o messo in crisi i governi filo-occidentali del Maghreb, dell’Egitto e della penisola araba.

La piazza araba però non chiede solo pane e lavoro, fa richieste sociali e politiche. Non sono richieste di origine religiosa, perché uno stato islamico non risolverebbe i loro problemi (in Egitto i Fratelli musulmani sono scesi in piazza 5 giorni dopo, in pratica chiedendo il permesso al movimento); non vogliono neanche copiare la “democrazia” occidentale, cercano una strada propria per il cambiamento della vecchia società.

L’Occidente invece agita lo spettro dell’islamismo (e della “migrazione biblica”) per arroccare l’opinione pubblica - istintivamente portata a solidarizzare coi movimenti - e prepararla a un eventuale intervento militare.

Il potere non è cambiato nella sostanza, anche se Ben Ali e Mubarak sono caduti. La repressione c’è già: in Egitto sono in funzione tribunali militari, bastonano manifestanti in piazza Tahrir, tentano di seminare terrore e discordia.

Le masse fanno davvero la storia; la mancanza di una direzione politica organizzata, che abbia un programma strutturato contro lo stato, non porterà a soluzioni immediate, ma i semi resteranno e col tempo produrranno grandi cambiamenti.

E’ interesse del popolo italiano e di quelli arabi che la giusta esigenza di cambiamento che viene da questi paesi non venga strumentalizzata per altri scopi, e che siano i popoli a decidere il loro futuro in completa autonomia, senza interventi militari ed ingerenze dall’esterno.

Tutti i poteri politici ed economici imperialisti che hanno interessi diretti o indiretti nell’area cercano ora di intromettersi.

La diversa storia e la diversa composizione sociale dei paesi arabi, la presenza maggiore o minore di risorse petrolifere, i diversi rapporti con altri paesi, possono portare a esiti politici diversi.

Riguardo alla Libia occorre guardare i fatti da un’ottica specifica: la struttura sociale è ancora legata alle tribù. Gheddafi, che viene da una tribù minore della Sirte, è visto dalla tribù più importante, che fa capo a Bengasi, come un sopraffattore che ha armi e denaro.

In Libia il costo della vita è basso rispetto al reddito medio della popolazione, non c’è una emigrazione per povertà, le rivendicazioni dei senussiti non sono quindi per i generi di prima necessità ma per sostituirsi all’attuale potere centrale.

Gli occidentali manovrano nel contrasto libico per tentare la scrollata contro il governo di Gheddafi, non sufficientemente controllabile (così come non è controllabile il governo di Assad in Siria) nel quadro della globalizzazione, e per indebolire il paese in modo da potersi gestire il suo petrolio e il suo gas.

Parigi, amica degli USA, è irritata dagli eventi nel Maghreb,e riconosce il Consiglio Nazionale provvisorio di Bengasi; il discorso duro di Sarkozy contro Gheddafi ha fini elettorali, l’anno prossimo vuole prendere voti e spazio politico al partito di Le Pen; Sarkozy fa credere di poter contare sull’Europa, di voler agire in favore dell’unità europea, e con questa azione di forza, che ha iniziato per primo (ha rovesciato la posizione della Francia, che aveva votato contro la guerra in Iraq), pensa di recuperare voti dei “pied noir”con un ritorno al mito colonialista e nazionalista della grandeur francese.

Londra era presente in Libia fino al 1970; oggi cerca di riprendere terreno, fin dall’inizio si è posta a fianco di Parigi; due navi militari inglesi sono presenti nel porto di Bengasi, ed emissari inglesi in Cirenaica.

I governanti italiani si cibano di chiacchiere che nessuno ascolta: cercano di mantenere una porta aperta a Gheddafi, ma alla fine si sono allineati con gli altri concedendo l’uso delle basi e inviando aerei che però “non sparano”. Germania e Turchia non condividono le posizioni della “coalizione dei volenterosi”.
 http://www.blogger.com/post-create.g?blogID=1470513990449405245
L’astensione di Russia, Cina, Germania, India e Brasile al Consiglio di Sicurezza è un segnale negativo, di debolezza di fronte all’interventismo, che lascia mano libera ai guerrafondai.

I fatti dimostrano che in un primo tempo c’è stata la ribellione di Bengasi, con l’appoggio occidentale; poi si è ottenuta l’acquiescenza dell’ONU a embargo, sequestro dei beni e no-fly zone, con inevitabile coinvolgimento dei civili; l’attacco aeronavale francese, inglese e americano, con bombardamenti feroci contro tutto il territorio libico, è stato fin da subito una guerra di fatto, che è andata ben oltre lo stesso mandato dell’ONU; si vuole passare a una terza fase, con la fornitura di armi agli insorti e l’intervento di truppe terrestri. Siamo dunque di fronte non più a una guerra civile ma a una guerra imperialista.

La Libia è un paese alle porte di casa nostra, con cui l’Italia ha importanti rapporti economici e politici da molto tempo e non certo solo da quando c’è l’attuale governo. Il popolo libico deve risolvere da solo i suoi conflitti, senza ingerenze e senza intervento armato dall’esterno; un Afghanistan o un Iraq alla porta di casa colpisce lo sviluppo economico e sociale non solo della Libia ma anche del nostro paese e di tutti i paesi sulle coste del Mediterraneo: dobbiamo opporci con forza a ogni intervento aperto o subdolo, dichiaratamente armato o apparentemente “umanitario”.

Ci sono divisioni sul che fare all’interno della dirigenza USA e dei suoi due grandi partiti. Obama vuole un intervento in tempi brevi, per coinvolgere poi i paesi europei, che trarrebbero i maggiori vantaggi da una sconfitta di Gheddafi. Washington è più preoccupata per la situazione in Arabia Saudita ed Emirati. La rivolta in questi paesi è molto profonda e potrebbe sconvolgere tutta l’area. I popoli avanzano rivendicazioni politiche e i governanti rispondono con proposte economiche (ad esempio il Kuwait ha concesso 3.000 $ a famiglia) oppure con l’invasione saudita (nel Bahrein). Le tv degli emirati al Jazeera e al Arabija hanno diffuso notizie false sul conflitto in Libia (10mila morti e 50 mila feriti) per giustificare l’intervento. La Lega Araba, influenzata dall’Arabia Saudita, ha chiesto di creare in Libia la no-fly zone. Il Qatar è intervenuto direttamente nei cieli libici. Arabia Saudita ed Emirati vogliono la testa di Gheddafi per dimostrarsi “democratici” e sperano di calmare la piazza.

L’attacco alla Libia serve anche per mettere in ombra il movimento delle piazze arabe, la ribellione popolare. La politica dell’Occidente è dominata dalla paura del cambiamento, l’ultima sua parola è la repressione.

Si comprende allora perché Putin ha dichiarato che la “coalizione dei volonterosi” è andata oltre le decisioni del Consiglio di Sicurezza iniziando una crociata contro la Libia, per cui anche la Russia deve riprendere ad armarsi. I bombardamenti sulla Libia spiegano perché la Repubblica Popolare Democratica di Corea e la Repubblica islamica dell’Iran sono costrette a garantirsi una difesa militare contro un possibile attacco, per salvaguardare la propria indipendenza e sovranità; anche l’Europa (se esistesse politicamente) dovrebbe riflettere sulla necessità di rendersi indipendente dalla superpotenza USA.

E’ un momento di grandi sconvolgimenti: con la fine del bipolarismo USA-URSS, l’imperialismo USA ha imposto la sua globalizzazione, e tramite i suoi strumenti economici (FMI, Banca Mondiale, WTO) e politici (ONU, G8) cerca di imporre ovunquele sue regole e di stabilire quali paesi e quali continenti si possono sviluppare e quali devono morire, quali regimi restano e quali vanno combattuti.

Gran parte della produzione industriale è stata delocalizzata (per es. in Cina o India), e i poteri economici in Occidente si chiedono: perché non riprendersi quanto concesso finora, perché non abolire lo stato sociale all’interno e ristabilire il colonialismo all’esterno?

La Francia pensa solo per se stessa e non all’Europa, e ha messo o sta mettendo le mani su settori importanti dell’industria italiana ( Fiat Ferroviaria, Banca Nazionale del Lavoro, alimentari e acque minerali, alta moda e ora Bulgari, Parmalat Edison ecc, in attesa di Alitalia, e l’ENI deve vendere azioni dell’oleodotto South Stream a Electricité de France): è una rapina; la FIAT a sua volta si è accordata col governo USA (e già aveva venduto Fiat Avio, costruttrice dei propulsori per i razzi Ariane, a un fondo d’investimenti americano).

Le svendite, delocalizzazioni e chiusure di aziende hanno disastrato il paese: bisogna fermarle; è ora impellente affrontare la “questione italiana”.

Il centrosinistra è filoamericano (ricordiamo le posizioni sulla guerra in Afghanistan, Jugoslavia, Iraq e ora Libia) e gli attuali governanti non hanno saputo porre i problemi reali, non sono all’altezza di dirigere il paese (per di più Berlusconi è sotto ricatto anche per i suoi rapporti con Gheddafi e Putin, vedi rottura con Fini, problemi giudiziari, critiche della stampa internazionale) perché non hanno o non vogliono avere una visione che vada oltre problemi di corto respiro.

Si tratta invece di capire come evolverà il mondo: bisogna ormai ragionare in termini di multipolarismo, che favorisca la crescita di ogni singola realtà, bisogna creare nel paese una linea economica e una struttura politica che si inseriscano attivamente all’interno delle strutture europee, lavorando nella prospettiva di un’Europa indipendente dalla superpotenza USA, con una politica estera propria e in cui ogni paese possa identificarsi.

Le basi italiane non devono essere concesse per azioni di guerra, il nostro paese non deve essere coinvolto in avventure militari.

Gli USA devono lasciare il Mediterraneo ai popoli che lo abitano.

Dobbiamo dare aiuto concreto ai paesi arabi del Mediterraneo per costruire il loro sviluppo economico e le loro infrastrutture, sulla base di rapporti paritari.

Patrizia Aldrovandi e tre giornalisti della Nuova Ferrara rinviati a giudizio per diffamazione

Per aver detto e scritto che il fascicolo del primo pubblico ministero Maria Emanuela Guerra era  praticamente vuoto a 4 mesi dalla morte di Federico Aldrovandi, sono stati rinviati a giudizio per diffamazione dal tribunale di Mantova, la mamma del ragazzo, il direttore e due giornalisti della Nuova Ferrara. Il processo è fissato al 1 marzo 2012. Il magistrato ha chiesto un risarcimento di un milione e mezzo di euro.
"Confesso che ho pianto di rabbia e dispiacere, confessa Patrizia, non me l'aspettavo. In questa battaglia per la verità sulla morte di Federico, che ha avuto un primo e parziale riconoscimento, abbiamo sempre usato l'arma della civiltà e del rispetto. Ora mi vogliono processare per aver detto semplicemente quello che è agli atti del processo e nelle motivazioni della sentenza di primo grado del giudice Francesco Maria Caruso".
Insieme alla mamma di Federico sono stati rinviati a giudizio il direttore della Nuova Ferrara Paolo Boldrini e due redattori del quotidiano ferrarese. Agli atti figurano praticamente tutti gli articoli pubblicati dal quotidiano, che fanno riferimento al ruolo del magistrato nella vicenda che il 25 settembre 2005 portò alla morte del diciottenne Federico, durante un controllo di Polizia. Quattro agenti della questura di Ferrara sono stati condannati a 3 anni e sei mesi per eccesso in omicidio colposo. Come fonte di prova della diffamazione, acquisita nel processo, anche una pagina che riporta le fotografie, separate e distinte, di Patrizia Aldrovandi e di Maria Emanuela Guerra. "La madre di Federico, sostengono gli avvocati del magistrato, sembra guardare con tono minaccioso la nostra assistita, gettando in questo modo discredito sul suo operato".
"Mi dispiace per Patrizia, commenta il direttore della Nuova Ferrara Paolo Boldrini, ha già perso un figlio, ha affrontato un lungo e doloroso percorso giudiziario e ora da vittima dello Stato diventa addirittura presunta autrice di un reato contro lo Stato".
"Tra un anno, attacca l'avvocato Fabio Anselmo che difende la mamma di Federico, trasformeremo il processo a nostro carico in un processo contro il sostituto Maria Emanuela Guerra, porteremo le prove del suo operato".
"Se ci dovesse essere, a questo punto non accetterò più nessuna remissione della querela, spiega Patrizia, non abbiamo paura della verità. L'unica condizione è che la signora Guerra chieda scusa a tutti".
Il sostituto procuratore Maria Emanuela Guerra il 14 marzo 2006 lasciò le indagini , le subentrò Nicola Proto. Il 12 dicembre 2009 il figlio del primo magistrato fu condannato per spaccio di droga a due anni e quattro mesi in un'inchiesta denominata " Bad Boys". Le indagini, condotte dalla squadra mobile di Ferrara, scattarono poche settimane prima del 25 settembre 2005. La Nuova Ferrara è stata querelata anche per aver scritto questo.

Avete ucciso Vittorio Arrigoni, ma noi resteremo umani!

Avete ucciso Vittorio Arrigoni, ma non ucciderete mai la speranza che in Palestina qualcosa possa cambiare. Vittorio era la nostra voce a Gaza, che parlava sotto le bombe, raccontando quello che vedeva con ironia e umanità, senza filtri. Una voce scomoda per i signori della guerra, di tutte le fazioni, sempre dalla parte degli ultimi e sempre a favore di una pace giusta. Discutevamo spesso con lui sulla sua pagina, che era il primo e più affidabile riferimento ogni volta che la tragedia della guerra permanente riportava la Palestina all'attenzione del mondo. Vittorio è morto nella sua Gaza, una prigione a cielo aperto dove vive in condizioni di apartheid un milione e mezzo di palestinesi. Non sappiamo se a ucciderlo siano stati davvero i salafiti della fantomatica e finora sconosciuta «Brigata Mohammed Bin Moslama», o se Vittorio sia rimasto vittima di un'operazione decisa in qualche stanza dell'intelligence israeliana. Quello che invece sappiamo senza alcun dubbio è che la sua morte priva la pace di uno dei figli migliori e che da oggi la Palestina sarà ancora più sola. Per questo, stringendolo forte in un abbraccio ideale, rilanciamo con rabbia e dolore il suo "Restiamo umani". Ciao Vittorio, uomo, compagno, fratello. Oggi piangiamo la tua morte, ma nessuno trascuri le lacrime che ci bruciano il viso, nessuno sottovaluti la nostra rabbia.

domenica 10 aprile 2011

Due donne trucidate dalle forze di occupazione israeliane a Gaza l'8 aprile


L'altroieri ero a casa di un'amica ad AbuSan, e quando mi sono svegliata mi ha spiegato che le forze di occupazione sioniste avevano ammazzato 2 ragazzi all'ingresso del villaggio di Khuza'a. Giusto dove arriva la strada principale per entrare nel villaggio.

Verso mezzogiorno ero ancora a casa, perchè era Venerdì, ed il venerdì qui non si va a visitare nessuno. Si sono sentiti colpi di artiglieria israeliani dal confine. Mi hanno spiegato che venivano dal villaggio vicino, Farahin, e non erano carri armati perchè i carri armati non lanciano sufficientemente lontano, erano altri tipi di missili, fatti per arrivare più distante. Quattro boom in meno di 5 minuti. Era un momento in cui dovevo uscire per restituire una macchina fotografica ad un'altra attivista dell'ISM, e dopo poco sono uscita comunque. Per strada c'erano solo ambulanze, una gran folla di uomini era radunata davanti alla moschea. Non sapevo cosa stesse succedendo, ero incerta se andare davvero dove dovevo andare, magari poi non c'erano più mezzi per tornare indietro, magari valeva la pena andare a vedere cosa stesse succedendo. Avevo sentito passando in mezzo alla gente la parola “shuhadiin” “due martiri”, ma non sapevo se si riferissero ai 2 ragazzi ammazzati la mattina all'ingresso del villaggio o a qualcos'altro. Camminavo avanti ed indietro sul marciapiede incerta sul da farsi, magari non era successo nulla, magari la gente si era radunata davanti la moschea perché era appena finita la preghiera del mezzogiorno e le ambulanze erano in giro perché ancora non si sapeva dove erano caduti i missili... Ad un certo punto mi raggiunge un amico in bicicletta, che mi chiede cosa faccio li e perché non vado dove devo andare, io gli chiedo cosa è successo e lui mi risponde “niente niente, adesso vai dove devi andare”. E lo sapeva, lui, cosa era successo. Due donne sono state trucidate di fronte a casa loro, la madre ed una figlia, la più giovane aveva 19 anni e si sarebbe sposata di li ad un mese; altre 2 sorelle ferite, una grave. Lui lo sapeva perché erano sue parenti, perché di sicuro è uscito di casa dopo che gli avevano telefonato comunicando la morte. Però a me non lo ha detto, me lo ha spiegato solo il giorno dopo, al momento mi ha detto che non era successo niente e di andare via, voleva tenermi lontano dalla morte e dalla distruzione, era un gesto gentile (dove trovi la forza questa gente di avere gesti gentili nelle situazioni peggiori, ancora non lo ho capito). E io il giorno dopo non gli ho chiesto cosa ha visto, non ne ho avuta la forza. Lui mi ha raccontato che una delle due sorelle ferite all'ospedale ha ripreso coscienza, ed ha domandato della madre, le hanno detto che era morta, poi ha domandato della sorella, e le hanno detto che era morta. L'altra sorella ferita sta lottando per la vita.




Il giorno dell'assassinio sono andata a fare visita alla famiglia per portare condoglianze. Qui ci sono tre giorni disponibili per portare le condoglianze, e le donne sono separate dagli uomini. Nella stanza delle donne c'erano due sorelle della vittima. Avevano lo sguardo vuoto di chi ha già pianto tutte le lacrime possibili. Di chi non trova giustificazione, ammazzata con un moderno missile creato per uccidere, solo per essere nata nel posto sbagliato, solo perché “palestinese di Gaza”. Scrivo creato per uccidere perché all'esplosione il missile ha scaraventato attorno a se centinaia di proiettili rotanti, e sono stati questo ultimi a crivellare i corpi delle donne, oltre che i muri e le porte della povera abitazione, le piante e gli alberi vicini. Ci hanno guidato sulla scena dell'assassinio 2 bambini: ci hanno mostrato le piante maciullate, i muri crivellati, la porta piena di buchi, le sedie intrise di sangue. E questo oggetto, un missile in grado di lanciare centinaia di proiettili, è un'arma creata per ammazzare il maggior numero possibile di persone, per cancellare quante più vite umane possibile, non c'è alcuna giustificazione per questo, non si può in nessun modo chiamare difesa, non è creato ne' pensato per uccidere una singola persona che minaccia l'incolumità di qualcun altro, è fatto per ammazzare quante più persone possibile: non è possibile controllare dove finiscano i proiettili rotanti, comporta comunque un'altissima probabilità di uccidere persone innocenti. Ed è stato usato di proposito contro civili, da parte di quello che chiamano “l'esercito più morale del mondo”.

Al ritorno una donna era infuriata: “guarda quella che loro chiamano democrazia: noi la paghiamo con i nostri figli e figlie, con la nostra vita, con le nostre case, con la nostra terra, con i nostri ulivi, con il nostro futuro, con i nostri sogni.”

Questo non è l'unico e probabilmente nemmeno il peggiore delle aggressioni sioniste a Gaza negli ultimi giorni, da giovedì pomeriggio si sono contate 18 vittime, ed altre due persone stanno lottando per la vita.
Grazie a Silvia.

martedì 29 marzo 2011

ll c.s.a. Asilo Politico di Salerno presenta le iniziative per il 18° anno di Autogestione


Il 13 maggio 2011 festeggeranno, in compagnia dei 24 Grana, 18 anni di resistenza. I militanti del c.s.a. Asilo Politico, per anni conosciuto come centro sociale occupato, oggi soltanto autogestito, si preparano a raggiungere la “maggiore età”.
Sabato 2 aprile TAYONE from Video Mind & Marracash Tour LIVE@ASILOPOLITICO – SA
E lo fanno ripercorrendo ciò che è stata la loro esperienza in città da quando, nel 1993, alcuni giovani membri dell’Associazione Culturale Andrea Proto occuparono uno stabile – un vecchio asilo mai utilizzato, ricettacolo di carcasse d’auto e siringhe usate – in via Magnone. Da un quartiere degradato, quale quello a ridosso della Tangenziale di Salerno, nei pressi del cimitero di Brignano, partì quella che i suoi promotori vollero chiamare una resistenza politico/culturale al sistema vigente.

«A Salerno, come nel resto d’Italia e in tutta Europa – scrivono i protagonisti in un opuscolo – una struttura marginale divenne un contenitore d’idee e di umanità che rivitalizzò una città piatta mentre l’agire politico della sinistra si consumava all’interno delle sedi di partito».

Il Csoa, così come nacque, rappresentava una continuità storica con il centro sociale Barone Rosso, di via Pio XI, occupato nel 1978 (il primo del sud italia) al cui interno venne a costituirsi il comitato “Su La Testa”. Nel 1993, a pochi giorni dall’occupazione lo stabile fatiscente viene ripulito e iniziano le prime attività, per lo più in campo musicale e teatrale. Suonano i 99 Posse, poi si esibiscono Paolo Rossi e Paolo Hendel, cominciano le rassegne teatrali; si moltiplicano i concerti di gruppi emergenti salernitani, alternati a formazioni più famose, tra cui Almamegretta, Assalti Frontali…
Sul piano politico, l’Asilo porta avanti lotte con il Movimento Autonomo Disoccupati Organizzati, con i senzatetto occupanti ex-Marzotto, con i comitati per il recupero delle aree dismesse.
Tra il 1996 e il 1998 il centro sociale rimane chiuso per problemi logistici dovuti a furti e incendi. Nel ’98-’99 riprendono le attività. Tra il ’99 e il 2000 si concretizza “Telefono Viola” contro gli abusi psichiatrici. Si costituisce inoltre la Rete del Sud Ribelle in vista di Genova 2011.
L’obiettivo che si pongono oggi coloro che animano l’Asilo Politico è quello di contribuire alla crescita della città difendendo la memoria storica dei Movimenti di Lotta.
fonte: La Città

domenica 27 marzo 2011

Libia. Dalla guerra civile alla guerra del petrolio

Perché è saltato l’equilibrio di potere di Gheddafi? Chi sono “quelli di Bengasi”? Questa è una vera guerra del petrolio, rivelatrice della competizione globale e piena di incognite
di Sergio Cararo *
“E’ una rivolta dei giovani. Sono loro che hanno iniziato la rivoluzione… noi ora la stiamo completando”. In questa breve considerazione che il colonnello Tarek Saad Hussein riferisce al settimanale statunitense “Time” a fine febbraio, è possibile comprendere gran parte del processo che è stato impropriamente definito come “rivoluzione libica” (1)

Il col. Hussein è uno degli alti ufficiali del regime di Gheddafi passato quasi subito con i ribelli di Bengasi. Insieme a lui c’è tutto un settore rilevante dell’apparato statale del regime che ha dato vita allo scontro mortale con Gheddafi per sostituirlo con una nuova leadership. E’ vero, hanno mandato prima avanti i giovani. A Bengasi il 15 febbraio erano stati i giovani e i familiari dei prigionieri politici della rivolta del 2006 nella capitale della Cirenaica ad essere scesi in piazza davanti al commissariato dentro cui era stato rinchiuso l’avvocato Ferhi Tarbel, difensore degli arrestati nella rivolta di cinque anni prima. La manifestazione del 15 febbraio era stata repressa duramente – come purtroppo è la norma in Libia e in tutti i paesi del Medio Oriente. Due giorni dopo, una nuova manifestazione, vedeva però i manifestanti, già armati, passare subito all’escalation sul piano militare contro i poliziotti del regime di Gheddafi (2)

Una tempistica rapidissima e bruciante che non ha avuto neanche il tempo di manifestarsi come rivolta popolare di piazza per diventare subito una guerra civile. E’ vero, hanno iniziato i giovani, esattamente come avevano fatto i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Algeria o – in tempi e modi diversi – nelle strade di Roma o nelle banlieues francesi. Avevano tutte le ragioni per farlo, anche nella Libia di Gheddafi. Ma dietro i giovani libici, hanno preso subito la situazione in mano – piegandola ai loro interessi - gli uomini del vecchio apparato di regime in rotta con il leader e ansiosi di ridefinire gli equilibri interni sconvolti dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalle misure “liberiste ma non liberali” introdotte da Gheddafi nel 2003.

La brusca e feroce escalation militare nella brevissima rivolta popolare libica, ci ha convinti che quella avviatasi era piuttosto una guerra civile e per alcuni aspetti con tutte le caratteristiche di una “guerra di secessione” come avvenuto negli anni Novanta in Jugoslavia o più recentemente in Sudan. Una guerra civile ed una possibile secessione della Libia alla quale non sono certo estranei gli interessi delle potenze europee e degli USA sul petrolio e il gas libico.

Su questa valutazione abbiamo introdotto una prima chiave di lettura sulla crisi in Libia che ci ha portato molti consensi ma anche numerose critiche in molti ambiti della sinistra, persino di quella più radicale.

Con il brutale e consueto intervento militare, con i bombardamenti sulla Libia da parte di Francia, USA, Gran Bretagna ed altre potenze della NATO, la discussione potrebbe dirsi conclusa attraverso la realtà dei fatti. I fatti spiegano la realtà meglio di mille opinioni. Eppure riteniamo che questa vicenda della Libia debba e possa prestarsi ad un lavoro di chiarezza, informazione, formazione di un punto di vista critico e rivoluzionario della realtà, che stenta enormemente a farsi strada tra tante soggettività della sinistra e degli stessi attivisti dei movimenti No war.

Perché è saltato l’equilibrio su cui si reggeva il potere di Gheddafi?

Uno splendido articolo del direttore del giornale arabo Al Quds Al Arabi, segnala la preoccupazione per uno scenario che spiani la strada a quello che l’autore definisce il “Chalabi libico”. Abd al Bari Atwan, direttore palestinese di questo autorevolissimo giornale in lingua araba, descrive perfettamente la trappola dentro cui Gheddafi è caduto – volontariamente – per mano dei suoi nuovi amici occidentali, i quali, secondo Atwan, “hanno utilizzato con il colonnello libico lo stesso scenario che avevano utilizzato con il presidente iracheno Saddam Hussein, con alcune necessarie modifiche che sono il risultato delle mutate condizioni e della differente personalità di Gheddafi”. Il colonnello si è disperato perché i suoi nuovi amici occidentali non lo hanno aiutato mentre i ribelli di Bengasi lo stavano accerchiando. Se l’alleanza occidentale era stata costretta a sbarazzarsi di Mubarak, afferma Atwan, perché mai sarebbe dovuta intervenire a salvare Gheddafi? L’illusione del leader libico derivava dalle concessioni fatte a USA e Gran Bretagna nel 2000 e che nel 2003 lohanno portato fuori dalla lista nera dei “rogues states” e quindi lontano dai bersagli della guerra infinita scatenata dall’amministrazione Bush nel 2001.

“Washington e Londra hanno utilizzato l’esca della “normalizzazione” e della riabilitazione del regime libico, che avrebbe aperto la strada al suo ritorno nella comunità internazionale in cambio della sua rinuncia alle armi di distruzione di massa” – osserva Atwani – “Ciò avvenne nel 2003, cosicché americani e britannici poterono dire che la loro guerra in Iraq aveva cominciato a dare i suoi frutti. Dopo averlo spogliato delle armi di distruzione di massa, lo hanno adescato spingendolo a porre le sue riserve di denaro nelle banche americane e ad aprire nuovamente il territorio libico alle compagnie petrolifere britanniche ed americane, ancora più che in passato”. (3)

L’analisi dell’analista palestinese è spietata ma pertinente: “L’errore più grave che Gheddafi ha commesso è stato quello di fare all’Occidente tutte le concessioni che quest’ultimo gli chiedeva, e di non fare invece alcuna concessione al suo popolo che gli chiedeva libertà, democrazia e una vita dignitosa”.

La storia degli ultimi dieci anni ci racconta di un Gheddafi che ha aperto agli investimenti stranieri in cambio del ritiro delle sanzioni economiche a cui la Libia era sottoposta da anni. Non solo, nel 2033 vara un pacchetto di misure che include la privatizzazione di 360 imprese statali. “La Libia dopo la svolta compiuta da Gheddafi nei primi anni 2000” si è aperta agli investimenti occidentali - scrive un autorevolissimo sito specializzato sul Medio Oriente – Nel paese sono affluiti capitali italiani, inglesi, americani, turchi, cinesi”. Nel 2003 la Libia era diventata una delle nuove frontiere della globalizzazione del continente” – riferiscono gli analisti dell’autorevole sito Medarabnews – “il nuovo Eldorado per molte società europee e americane” (4)

Mentre la produzione petrolifera è rimasta bloccata dalle quote imposte dall’OPEC (ma con significativi aumenti del prezzo del petrolio), tra il 2003 e il 2007 la produzione di gas naturale libico è praticamente triplicata. Non solo, la qualità e i costi di recupero del greggio relativamente bassi del petrolio libico, “rendono la Libia un importante attore del settore energetico globale” (5).

La Libia si è trovata così a disporre di una enorme liquidità finanziaria da investire – tramite il boom dei fondi sovrani sviluppatisi nei paesi petroliferi – in banche e attività nei maggiori paesi capitalisti. Da qui l’entrata in Unicredit, Finmeccanica, Eni o la permanenza nel capitale della Fiat.

Per il regime di Gheddafi sono dieci anni d’oro dopo anni di embargo e ostracismo. Incontri con Condoleeza Rice e l’amministrazione USA. Incontri favolosi con Berlusconi (ma anche con Prodi). Non solo. Vengono siglati dei Trattati bilaterali con i paesi europei che sono posti a guardia delle due maggiori vulnerabilità dell’Unione Europea: garanzie dell’approvvigionamento energetico e blocco delle ondate migratorie. Gheddafi diventa così il garante di entrambe.

Qualche giorno prima degli incidenti di Bengasi a febbraio, lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio rilasciava una valutazione del nuovo corso libico quasi entusiasta: “Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza” (6)

A sconquassare la “Belle Epoque” libica, così come del resto del mondo legato al ciclo economico del capitalismo euro-statunitense, è arrivata la crisi finanziaria e globale del 2008/2009. Secondo alcuni osservatori attenti a valutare le conseguenze della crisi libica sull’Occidente, il punto di rottura è stato proprio questo: “La crisi finanziaria tra il 2008 e il 2009, ha ridotto del 40% i ricavi dei pozzi di petrolio, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore” (7).

E’la crisi globale, dunque, la stessa crisi sistemica che sta squassando i capitalismi negli USA e in Europa a mettere in crisi l’equilibrio raggiunto tra Gheddafi e le varie componenti (economiche e tribali) su cui si è retto per 41 anni il regime libico. Ma non c’è solo questo.

La svolta panafricana di Gheddafi nel 1997, che porta alla rottura definitiva con l’ipotesi panaraba perseguita fino ad allora, apre le frontiere della Libia ad una enorme immigrazione dall’Africa che destabilizza gli equilibri nella popolazione, nel mercato del lavoro e nella distribuzione delle rendite petrolifere. Su una popolazione libica di 6,5 milioni di abitanti, si tratta di “circa un milione e mezzo (forse due milioni, nessuno conosce la cifra esatta) di lavoratori provenienti da paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, Il Sudan, l’Etiopia, la Somalia etc. forniscono manodopera a bassissimo costo per l’industria petrolifera, il settore edile, quello dei servizi, l’agricoltura” ma l’apertura delle frontiere libiche all’Africa sub-sahariana “suscita gravi tensioni nel paese a causa dell’enorme afflusso di immigrati” (8)

L’effetto di questa immigrazione nelle relazioni sociali in Libia, è anche la causa della vera e propria esplosione di episodi razzismo contro gli africani (additati come “mercenari di Gheddafi”) da parte dei ribelli di Bengasi, segnalati anche da Amnesty International e Human Rights Watch e da tutti i corrispondenti e inviati nelle zone controllate dai ribelli.

“La rivolta libica ha innescato la più vasta esplosione di violenza razziale registrata in un paese nordafricano….Lo stesso regime del Colonnello è corresponsabile di un’ondata di razzismo cos’ feroce. I nemici del colonnello stanno istigando sciovinismo e xenofobia contro i neri africani. Permettere che un simile, palese fanatismo razzista si diffonde all’interno delle aree “liberate” è rischioso” scrive un autorevole giornale arabo decisamente ostile a Gheddafi (9).

Chi sono “quelli di Bengasi”?

La domanda che in molti si pongono e alla quale pochi sanno o vogliono dare risposte è: chi sono i ribelli contro Gheddafi? Qualcuno la risolve con troppa semplicità definendoli come “il popolo libico” e dunque i nostri alleati morali e politici. Altri brancolano totalmente nel buio. Altri ancora li guardano con sospetto solo dopo averli visti inneggiare ai bombardamenti della NATO sulla Libia così come fecero i kossovari dell’UCK in Jugoslavia nel 1999. Conoscere serve per capire, e capire serve a definire la propria azione politica.

Secondo alcuni analisti dei think thank vicini alla NATO e ai suoi circoli in Italia, l’interrogativo è se la rivolta contro Gheddafi e nelle rivolte avvenute nei paesi del Maghreb “evolverà verso un nuovo sistema politico più stabile, in grado di soddisfare le esigenze delle nuove classi che hanno iniziato questo processo, oppure se, in mancanza di ciò, gli stati arabi continueranno a indebolirsi fino a fallire” (10).

La rottura del patto con Gheddafi, farebbe emergere in Libia “l’esistenza di una elite di funzionari civili e filo-occidentali che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto” sostiene l’Istituto Affari Internazionali (11).

Altri analisti preferiscono alimentare lo schema secondo cui la rivolta libica è stata in tutto simile a quelle della Tunisia e dell’Egitto, con un ruolo preponderante dei giovani e soprattutto di giovani interni alla modernità ed estranei alle eredità tribali della struttura sociale libica. “Il movimento ribelle ha dimostrato una maturità democratica insospettata e una stupefacente capacità di auto-organizzarsi e di coordinare le diverse città e le diverse componenti della rivolta. Anche in questo caso i giovani hanno giocato un ruolo di primo piano nella gestione delle proteste e della lotta contro il regime”. E a proposito di giovani gli estensori di questa analisi precisano: “I giovani libici si affacciano sul Mediterraneo e guardano all’Europa. Essi hanno formato la loro coscienza anche grazie a strumenti come internet e i social network che hanno favorito il fluire delle idee e l’abbattimento delle barriere solitamente presenti in un regime dittatoriale” (12).

Questa analisi della composizione dei “ribelli di Bengasi” opta decisamente per una visione generazionale, moderna e conseguentemente democratica della rivolta libica, offrendo un modello perfettamente coincidente con quanto le società civili europee potrebbero e vorrebbero desiderare per sentirsi in una sorta di comunità di destino con i ribelli libici.

Altri osservatori insistono invece molto sulla dimensione tribale dei rivoltosi contro Gheddafi. In alcuni casi la strumentalità di questa analisi è evidente cercando di alimentare il punto di vista sionista e neoconservatore statunitense. Secondo costoro i ribelli di Bengasi o già sono o possono diventare manovalanza per l’estremismo islamico. Le notizie sull’emirato islamico fondato a Derna dai ribelli anti-Gheddafi hanno circolato abbondantemente ma non hanno trovato finora conferme significative. Certo, la Cirenaica è la regione libica dove l’influenza dei gruppi islamisti – nonostante la repressione – è rimasta più forte. L’ultima rivolta – quella di Bengasi nel 2006 contro le provocazioni del ministro italiano Calderoli – era apertamente ispirata e sostenuta dai gruppi islamisti e fu repressa da Gheddafi con il consenso e il plauso di tutti i governi europei, arabi “moderati” e dagli Stati Uniti.

In altri casi, la chiave di lettura dello scontro tribale non indugia nell’alimentare il fantasma di Al Qaida, ma segnala come la struttura tribale della Libia abbia da un lato impedito la costruzione di uno Stato propriamente detto e dall’altra ne minaccia la precipitazione tra “gli Stati falliti” evocando lo spettro della Somalia. Secondo un esperto statunitense di un centro studi sul Medio Oriente ed ex agente della CIA nella regione, le tribù contano molto, anzi “sono decisive” nella guerra civile in atto in Libia. “Dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio delle forze, prendendosi molte rivincite” (13).

Palermo : Ancora una volta, la stretta ed efficace cooperazione tra forze di polizia e fascisti si dimostra palese quanto consolidata.

23 Marzo 2011 -- La Mondadori, che in questa situazione ha avuto un ruolo fondamentale nonostante una settimana di campagna di boicottaggio cittadino nei loro confronti, ha fatto i suoi oscuri conti e ha deciso di chiudere al pubblico la libreria per un pomeriggio, rinunciando a tutti gli eventuali introiti e di dedicarla totalmente alla presentazione del libro dei fascisti di Casa Pound.

Fascisti perchè così si dichiarano e da tali si comportano. Nella grande opera di revisionismo storico la cultura diventa un comodo cuscinetto che riporta l'opinione pubblica alla vecchia teoria degli opposti estremi ma questa non è una storia di "rossi" e "neri" perchè spesso si sminuisce il ruolo dei "blu". Oggi sin dalle prime luci dell'alba la libreria Mondadori è stata militarizzata e con questo è stata garantita la presentazione del libro e il presidio di una cinquantina di militanti di estrema destra, protetti da due cordoni di polizia da un lato e guardia di finanza dall'altro in assetto antisommossa. L'iniziativa è stata denunciata al prefetto in quanto, questa "semplice possibilità di espressione" è di chiaro stampo fascista e va in contrapposizione con la nostra costituzione ma questo poco importa a chi dovrebbe stare a tutela delle leggi. Le forze dell'ordine hanno mantenuto la parola data: proteggere i neofascisti e caricare chi si è opposto a coloro i quali, fanno propaganda razzista, xenofoba e sessista, dietro la retorica della libertà di espressione. A differenza di ciò che è stato scritto da certa stampa compiacente, CasaPound non è nuova ad episodi di pestaggi, accoltellamenti e aggressioni. In realtà oggi, un piccolo spazio lo hanno avuto in una libreria chiusa al pubblico blindati e scortati dalla polizia. www.bandaradio.info http://www.youtube.com/watch?v=DpA9f9HP_E0

mercoledì 23 marzo 2011

NO ALLA GUERRA IMPERIALISTA‏

Il 19 marzo 2011 è cominciata l'ennesima guerra "umanitaria" imperialista.

Questa guerra ha come scopi non la difesa del popolo libico, ma unicamente interessi economici e strategici: infatti essa va ad inserirsi in un contesto più ampio di ridefinizione degli equilibri geopolitici del Nord-Africa e del Medio-Oriente da parte delle potenze imperialiste, le quali utilizzano il pretesto della guerra “umanitaria” per imporre il proprio dominio in questi territori e per giustificare la volontà di appropriarsi delle ricchezze naturali altrui, quali petrolio e gas.

Il governo italiano, dopo qualche tentennamento iniziale, impaurito dalle possibili conseguenze della crisi libica a causa dei forti legami tra i due paesi, ha dichiarato il suo appoggio all’intervento militare mettendo a disposizione della “coalizione dei volenterosi” numerose basi, facendo salpare le proprie navi e offrendo Napoli come luogo di direzione per le operazioni militari NATO.

Di fronte all’ennesima guerra imperialista noi non possiamo che esprimere nettamente il nostro dissenso e la nostra indignazione (oggi 23 marzo è stato calato uno striscione dal bar di lettere dell'Università di Salerno che recita: "no alla guerra si all'autodeterminazione"); sottolineando allo stesso tempo il diritto del popolo libico all’autodeterminazione contro il potere di Gheddafi.

NO ALLA GUERRA IMPERIALISTA!!!


SI ALL’AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO LIBICO!!!!


C.S.U.





mercoledì 16 marzo 2011

THREE MILES ISLAND-CERNOBYL-FUKUSHIMA : NUCLEARE MAI PIU’ !


Su quanto sta avvenendo in Giappone - alla catastrofe naturale si aggiunge quella del crimine nucleare - c’è poco altro da commentare salvo dire che quanto sta accadendo è un decisivo atto di accusa nei confronti del sistema dominante e dei mercanti dell’energia, che pur di speculare ed arricchirsi non esitano a scatenare catastrofi mortali.
Una lezione che le nuove generazioni non scorderanno facilmente. Gli era stato promessa “l’età dell’oro “ - nella sconfitta delle ideologie e nella condanna delle grandi narrazioni rivoluzionarie-
si ritrovano nel fango per  sopravvivere nelle mostruosità partorite dai padri .
Per il Giappone è una doppia nemesi storica . Quella di avere  esorcizzato Hiroshima-Nagasaki  addomesticandosi  all’uso pacifico e utile del nemico nucleare. Quella della potenza mondiale più avanzata in sistemi tecnologico-cibernetici, che vede crollare /difettare le certezze delle sue applicazioni e dopo aver osato sfidare un territorio ad alta sismicità che avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi insediamento nucleare.
Il paese del “ sol levante” , quello del “ protocollo di Kyoto” , è nel G20 a livello più basso quanto a produzioni energetiche rinnovabili ,pulite ed ecocompatibili.
Come già accaduto per Cernobyl le autorità stanno condannando la popolazione all’esposizione radioattiva. Il  balletto di disinformazioni è un deliberato atto di criminalità statuale, che si accompagna a quello del gestore privato Tepco, accomunati nel minimizzare la modestia dell’incidente , mentre già 4 dei 7  impianti di Fukushima scoppiano , i reattori fondono e la radioattività si potenzia ed espande , procurando morti, contaminati e malati cronico-terminali.
Come al tempo della nube di Cernobyl , le popolazioni esposte hanno assunto in un giorno una dose di radiazioni quanto quella assorbibile in 70 anni di vita ! Il che causerà loro e alle future generazioni cancri e leucemie, deformazioni e mutazioni genetiche.
L’Agenzia Nucleare Francese  comunica che l’incidente deve essere classificato almeno a “ livello 6” ( su scala che arriva a 7) e non a 4 come sostengono gestore e governo nipponici.
Catastrofe nucleare tragica in cui accade quello che molti temevano , “ la fusione dei noccioli” , che già comporta : 1) l’estensione oltre i 30 Km della popolazione da evacuare , ovvero almeno 500.000 persone ; 2) il divieto di consumare latte, uova,carni fresche, ortaggi,…di bere acqua sorgiva…; l’ordine di tapparsi in casa , di mettersi la mascherina e altri palliativi , tra cui le pastiglie di jodio ;
3) l’interdizione dello spazio aereo di sorvolo del territorio ; 4) l’ordine di abbandono della zona da parte della flotta Usa , nonché l’allarme per l’aumento della radioattività nella Regione di Tokyo dove sono situate altre basi Usa ; l’invito rivolto ai nostri connazionale dall’Ambasciata Italiana ad abbandonare Tokyo e il Giappone .
Intanto l’Europa presa dal panico avvia lo stop  al nucleare !
La Germania ferma 7 impianti e la Svizzera blocca le gare per 3 centrali. Oggi a Brusselles la UE ha deciso lo “ shock test” per tutte le centrali, così che per le uniche 3 in costruzione -Finlandia,Francia,Slovacchia – si profila il declino a fronte di costi e tempi triplicati.
Usa, Russia e Cina si impongono una moratoria. Di fatto nel mondo la tanto strombazzata ripresa del nucleare è bloccata, se non conclusa !!

Solo il governo Berlusconi intende andare avanti comunque !
Con questo avventuroso criminale vanno regolati i conti da subito, con la lotta e i referendum, che plebiscitariamente – come fu già quello dell’87 – sconfessi e abroghi il piano nucleare .
Il 26 marzo a Roma  ci sarà il primo assaggio , quando un milione di persone manifesterà contro il nucleare e per l’acqua bene comune . Sarà l’avvio della campagna elettorale dal basso,” porta a porta”, per portare a votare 55 milioni di italiani , così da superare il quorum, vincere i Referendum in tutela dei beni comuni, ridare voce e forza alla sovranità popolare , capovolgere la politica economico-sociale del Paese, dare l’ordine di sfratto a Berlusconi.
La vittoria dei SI ai Referendum inaugura la stagione della denuclearizzazione dell’Europa , lo smantellamento rapido e progressivo dei 140 pericolosi e mortali impianti nucleari.
Roma 15.3.2011                  Coordinamento Antinucleare”salute-ambiente-energia”

martedì 15 marzo 2011

Prima vittoria del c.s.u.


Ieri 14 marzo 2011 il Collettivo Studentesco Univesitario (C.S.U) ha partecipato all’Assemblea generale per le modifiche allo Statuto dell’Università degli Studi di Salerno, 
nell’aula “Nicola Cilento”, durante la quale sono state chieste al Magnifico Rettore delucidazioni sulla questione del presidio ospedaliero, 
del perchè ancora non venga rinnovata la convenzione con l’asl, e per chiedere il ripristino delle prestazioni mediche e specialistiche all’interno dello stesso.una prima vittoria: Il rettore pubblicamente ha affermato che si impegnerà per risolvere la questione e riattivare i servizi del presidio sanitario.Il C.S.U. ha inoltre chiesto chiarimenti riguardo l’accordo siglato dai 7 atenei campani con la regione Campania.
Mercoledì 23febbraio  a palazzo Chigi il Ministro Gelmini, il presidente Caldoro e i rettori dei sette atenei campani hanno sottoscritto un accordo di programma 
che prevede la soppressione di 34 corsi di laurea e la chiusura di 6 sedi decentrate, secondo un processo di federazione degli atenei, attivo per 5 anni a partire dal prossimo anno accademico. Infine  é stata  denunciata l’incopatibilità della candidatura a sindaco di Napoli di Pasquino con la sua carica di rettore.
A questa osservazione è stato risposto che, secondo lui, non ci  sarebbe nessun “confiltto di interessi”…Sarà!?
Collettivo studentesco universitario

venerdì 4 marzo 2011

Ribellarsi è giusto anzi un dovere!

Venerdì 25 Marzo 2011

3° PIANO – COMPLESSO MONUMENTALE DI S. SOFIA
Piazza Abate Conforti, Salerno 
ore 18,00 proiezione del Film
“E IO TI SEGUO” un film diMaurizio Fiume

Le libertà di pensiero e le libertà di stampa, per i potenti e per i dittatori rappresentano serie minacce in quanto la loro forza si fonda sull’ignoranza, sulla povertà e sul servilismo della gente.
Da quel tragico Novembre del Terremoto che nel 1980 colpì la Regione Campania, nonostante la valanga di finanziamenti, tali da poter rifare da capo l’intero Meridione, ci ritroviamo sempre a fare i conti con i disastri ecologici di sempre, Sarno, Atrani, Vibo Valentia, l’Aquila, Messina ecc., i rifiuti e le stesse miserie sociali e la precarietà di sempre.
Precarietà e miserie della Campania e del Meridione rimarranno endemiche tragedie, sino a quando saranno funzionali ad un sistema molto ben collaudato che si regge sulle collusioni tra politica e malaffare, contro il quale nessuno deve evidenziare, opporsi e/o addirittura scrivere.

Gianfranco Siani giovane giornalista del Mattino la cui sola colpa è stata quella di esplicare in piena libertà/obiettività il proprio mestiere, fu brutalmente trucidato dal braccio armato di un sistema politico barbaro, reazionario e retrivo che oggi si presenta/rappresenta da ceto politico.
Della libertà di stampa, del pensiero critico e dell’autonomia culturale da ogni forma di potere politico/ affaristico/criminale se ne discuterà
Venerdì 25 Marzo 2011 3° PIANO
Piazza Abate Conforti, Salerno ore 18,00 proiezione del Film
“E IO TI SEGUO”


Concerto di autofinanziamento

giovedì 3 marzo 2011

Due feriti il 26 ed un morto il 28 febbraio a Gaza

Stava finendo la bombola del gas in casa e sua moglie doveva cucinare, così Khaled Mohammed ElHsunmy, 37anni, è andato a raccogliere legna. Il posto dove si può trovare legna da ardere è vicino al confine, e lui si trovava a 450 metri dal confine, nelle vicinanze c'era anche un pastore. Non era la prima volta che si recava li a raccogliere legna, succedeva circa una volta al mese... Un cecchino israeliano lo ha colpito con un dum dum (proiettile che esplode all'impatto, proibito dalla convenzione di Ginevra) nella parte bassa della gamba destra, mandando in frantumi sia il perone che la tibia. “In casa siamo 9, il mio figlio maggiore ha 10 anni e la mia figlia maggiore 18. Lavoravo come contadino alla giornata, ma nell'ultimo periodo era difficile trovare lavoro, negli ultimi 2 mesi non mi ha chiamato nessuno.” Ha subito un'operazione i medici hanno dovuto applicare un sostegno esterno per impedire alle ossa di ricalcificarsi nelle posizione sbagliata; probabilmente nel giro di un anno dovrà subire un'altra operazione nella quale preleveranno dei pezzi di ossa dall'anca per posizionarli dove mancano nel perone o nella tibia.

Due persone sono andate a trovare Khaled in ospedale, uno è suo nipote, Bilal Shaban ElHsunmy di 18 anni, che raccoglieva detriti vicino al confine ed è stato ferito da un dum dum l'11 dicembre dell'anno scorso, anche lui ha ancora i sostegni esterni per fissare l'osso nella posizione giusta, ed anche a lui dovranno amputare un pezzo di osso dell'anca per metterlo dove è stato completamente frantumato dal dum dum sparato dal cecchino israeliano. I suoi 2 fratelli maggiori facevano lo stesso lavoro, ed entrambi sono stati feriti dalle forze di occupazione. Adesso nessuno lavora in famiglia.
L'altra persona presente nella stanza è Mohammed Smail ElKhamdaw, 34 anni, vicino di casa di Khaled, ferito il 19 novembre mente raccoglieva detriti al confine. Racconta: “La mia gamba era tenuta insieme solo dalla pelle, le ossa erano completamente andate in frantumi... nessun altro lavora in famiglia, dio ci aiuterà a trovare di che vivere. Mi domandi di lasciare un messaggio? Non ho nessun messaggio. Qualunque messaggio sarebbe inutile, perché tanto Israele continua a fare quel che vuole, qualunque cosa io dica non cambia nulla.”

Israele ha chiamato “buffer-zone” l'area di terreno palestinese compresa nei 300 metri dal confine israeliano, e ne hanno unilateralmente proibito l'ingresso a chiunque non faccia parte delle forze di occupazione. Inoltre, in un'area che secondo un rapporto dell'ONU va dal chilometro ai due chilometri dal confine, i cecchini israeliani sparano spesso ai palestinesi. Il rapporto dell'ONU definisce “no-go zone” l'area fino ai 300 metri e “high risk zone” l'area fino al chilometro e mezzo, due chilometri. Poiché nessuno o quasi nessuno entra più nei 300 metri dal confine, la maggior parte dei casi di persone ferite o uccise nell'ultimo periodo è nell'“high risk area”, sebbene essa non sia chiaramente definita né esplicitamente dichiarata nemmeno dalle forze di occupazione. 

“Erano le 2 del pomeriggio stavo dormendo vicino alla finestra, e vicino a me dormiva anche mia figlia di 18 mesi. Mi sono svegliato terrorizzato da un'esplosione vicinissima, la finestra era andata in frantumi e mia figlia perdeva sangue dalla parte alta della testa, quando l'ho pulita mi sono accorto che c'era un pezzo di vetro conficcato nella pelle, allora la ho portata in ospedale ero molto preoccupato, ha solo un anno e mezzo...li le hanno tolto il vetro e mi hanno spiegato come cambiarle le bende ogni giorno.” Inizia così il racconto di Hiatham Jamal Abo Sharikhi (33 anni) riguardo i fatti avvenuti il 26 febbraio. Le finestre dell'edificio sono andate completamente distrutte, non è più possibile chiudere la porta della terrazza e la casa è completamente piena di vetri: i pavimenti, i tappeti, i materassi, le coperte... Quando i bambini camminavano si continuavano a ferire con i vetri sui tappeti e sul pavimento e per questa ragione la famiglia si è temporaneamente spostata a vivere da dei parenti. L'esplosione è avvenuta a poche decine di metri dall'abitazione di Hitiam, in un ex compound militare colpito talmente tante volte che ormai è ormai vuoto ed abbandonato, ma lo spostamento d'aria è stato sufficiente a distruggere tutti i vetri dell'edificio, dal secondo piano dove abita lui al piano terra dove abita sua madre Shafiah, di 57 anni. “anche io stavo dormendo e sono stata investita dai vetri - racconta – fortunatamente ero protetta da una coperta. Dopo ho visto una grande nube nera alzarsi dal luogo dell'esplosione. Mio figlio sembra forte, ma so che è distrutto per quanto è successo a sua figlia.”

La prima moglie di Hitiam è stata uccisa nel 2007 quando da Beit Lahya stava cercando di raggiungere il marito che si trovava a Gaza, perché la situazione nel nord stava diventando pericolosa. I suoi 2 figli stavano viaggiando con la madre un un'automobile che è stata colpita da una bomba israeliana lanciata nelle vicinanze. La madre e l'autista sono morti, e, quando hanno portato il cadavere della madre all'ospedale, ancora teneva salda la figlia di 15 giorni, ed i medici hanno dovuto faticare per separarla dalla madre. La figlia ferita il 26 febbraio proviene invece dal secondo matrimonio di Hitiam, avvenuto dopo la morte della prima moglie.

Sempre il 26 febbraio più o meno alla stessa ora le bombe israeliane hanno raggiunto il campo profuchi di Burej, fortunatamente senza causare nessun ferito.
  
“Gli avevo detto di non andarci, perchè era troppo vicino al confine e pericoloso, ma lui sosteneva che li c'erano più pietre, e voleva comperare il latte per suo figlio” 
Tareq, cugino di Omar Maruf, ucciso dalle forze di occupazione il 28 febbraio.

Tareq ed Omar stavano raccogliendo pietre, Tareq si trovava a 700 metri dal confine e Omar si era avvicinato fino a 300 metri, per raggiungere un'area dove poteva trovarne di più. Le pietre poi sarebbero state distrutte per farne materiale da costruzione, l'ingresso del quale qui a Gaza è proibito dall'assedio. Omar si trovava fuori dalla vista di Tareq quando dalla torre di controllo hanno iniziato a sparare, Tareq sapeva che il cugino era ferito, ne era certo anche perché con l'ultimo colpo è stato colpito l'asino che tirava il carretto che Omar utilizzava, l'aveva visto cadere. Tareq non poteva avvicinarsi perché gli spari continuavano, e nemmeno l'ambulanza riusciva ad avere il coordinamento con l'esercito israeliano per raggiungere l'area.
Le forze di occupazione hanno continuato a sparare fino alle 11, e nel frattempo i bulldozers stavano scavando un buco attorno al carretto ed all'asino morto.
Alle 2 di pomeriggio la salma di Omar è stata recapitata all'ospedale di Shifa attraverso il valico di Erez. Il corpo presentava una ferita da dum dum (proiettile che esplode all'impatto, vietato dalla convenziona di Ginevra) all'altezza dell'addome, e nessun segno di cure o medicazioni.

Omar, assassinato a vent'anni, lascia una moglie della stessa età ed un bimbo di 2 anni. E tante domande sul perché di un'azione militare che nel suo complesso appare davvero priva di senso ed troppo simile ad un gioco violento, contro un individuo chiaramente disarmato ed inoffensivo.

“Non vogliamo soldi, cibo o vestiti, vogliamo vivere al sicuro. I miei figli si svegliano la notte facendo incubi di spari e morti, la moglie di mio cugino Omar è distrutta dal dolore” conclude Tareq.
Grazie a Silvia
http://libera-palestina.blogspot.com/2011/03/due-feriti-il-26-ed-un-morto-il-28.html

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