 Di  quello che è accaduto si sa tutto, o quasi. Manca una risposta, quella  fondamentale: perché? Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi: un  manifestante ucciso, circa 560 tra dimostranti e agenti feriti, almeno  25 milioni di euro di danni. Ma nessuno finora ha pagato e, complice la  prescrizione dei reati, probabilmente nessuno pagherà mai: la violenza  che in quel luglio 2001 si è impadronita di Genova resterà senza  responsabili.
Di  quello che è accaduto si sa tutto, o quasi. Manca una risposta, quella  fondamentale: perché? Di quello che è accaduto si sa tutto, o quasi: un  manifestante ucciso, circa 560 tra dimostranti e agenti feriti, almeno  25 milioni di euro di danni. Ma nessuno finora ha pagato e, complice la  prescrizione dei reati, probabilmente nessuno pagherà mai: la violenza  che in quel luglio 2001 si è impadronita di Genova resterà senza  responsabili.
 
Sono  passati dieci anni dal G8 che annichilì un movimento, capace di  riportare alla politica masse senza tessera: una festa giovane, con  cittadini d'ogni età e nazionalità, schiacciata dalle botte degli uomini  in uniforme e dalla guerriglia urbana di una minuscola minoranza in  tuta nera. Chi si è trovato prigioniero di quella bolgia feroce non ha  più dimenticato.
Ora  il decennale apre la corsa a ricordare: ci saranno memorie,  celebrazioni e libri sul vertice che ha marcato in modo nefasto  l'esordio del lungo governo della destra italiana. Il primo volume porta  la firma dell'ideatore di quella kermesse nata per essere pacifica,  Vittorio Agnoletto. Assieme a lui, Lorenzo Guadagnucci, un giornalista  che da allora si è occupato a tempo pieno di quei giorni di fuoco e di  sangue. In "L'eclisse della democrazia" (ed. Feltrinelli, 270 pagine,15  euro) offrono una ricostruzione dettagliata e inedita degli episodi più  vergognosi. A partire dalle pressioni per ostacolare le indagini.
 
Perché  quella del G8 sembra una storia semplice ma non lo è. Squadre  organizzate di black bloc si infiltrano nei cortei, vanno all'assalto e  provocano una reazione scomposta delle polizie che caricano alla cieca.  Nella nebbia dei lacrimogeni, tutto diventa violenza. In uno degli  scontri, un carabiniere spara e uccide Carlo Giuliani. E questo  trasforma le strade in un campo di battaglia, dove ogni regola viene  calpestata.
Nella  caserma di Bolzaneto centinaia di persone subiscono torture fisiche e  psicologiche. Fino al blitz nella scuola Diaz, concepito per gonfiare le  statistiche degli arresti, che si è trasformato nella "macelleria  messicana" con il pestaggio di 93 innocenti. Per Amnesty International è  stata "una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in  Europa nella storia recente".
Chi  lo ha permesso? Il Parlamento non ha voluto indagare: ai tempi del  governo Prodi e della maggioranza di centrosinistra, i rappresentanti  del popolo italiano se ne sono lavati le mani e hanno delegato tutto ai  giudici. I corpi dello Stato invece hanno fatto quadrato. Ed è questa la  parte più inquietante del saggio di Agnoletto e Guadagnucci: l'analisi  di come la polizia sia stata contro la magistratura in ogni fase del  procedimento.
 
Lo  raccontano per la prima volta i pm che si sono occupati dell'inchiesta,  a partire da Enrico Zucca che testimonia una "proposta indecente",  gravissima dal punto di vista istituzionale: "Arriva dalla polizia una  richiesta esplicita, una sorta di patto: voi rinunciate ad andare a  fondo nelle inchieste sulla polizia, noi facciamo altrettanto nelle  indagini sui manifestanti. La proposta ci è riferita in questi termini  dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino. È decisamente rifiutata".
Lo  conferma anche Patrizia Petruzziello, il magistrato che ha poi condotto  l'inchiesta su Bolzaneto: "Si proponeva una sorta di pari e patta".  Secondo i pm, il no alla proposta diede inizio a uno scontro frontale  tra istituzioni che finora è rimasto relegato nelle aule di giustizia  genovesi ma che invece richiederebbe una riflessione molto più alta sui  poteri degli apparati statali nell'Italia del XXI secolo.
La  spaccatura è arrivata fin dentro la procura, dove i sostituti sono  stati costretti a firmare un documento per chiedere di indagare i  funzionari che hanno guidato il raid nella Diaz. Zucca ricorda un clima  di tensione crescente: "Proprio agli albori dell'indagine pervenne un  messaggio oscuro e sibillino, nel senso che si vociferava che pezzi  deviati della polizia, al di fuori di ogni controllo, stavano tramando e  non avrebbero tollerato alcuna inchiesta.
 
Fu  una voce poi non verificata, ma l'effetto intimidatorio, nella fase in  cui erano in gioco le decisioni sulla stessa apertura di un'inchiesta e  con le lacerazioni esistenti in procura, era garantito. Inoltre  l'inchiesta si sommava ai normali carichi di lavoro. In procura eravamo  25 sostituti, ma non fu deciso di dedicarne alcuni a tempo pieno alle  inchieste sul G8". La pressione arriva al culmine quando l'istruttoria  punta sull'VII nucleo antisommossa, la "celere" romana passata dagli  stadi all'irruzione nella Diaz: "Ci arrivò il messaggio di aspettare, di  essere cauti: "Non riusciremmo a contenere eventuali reazioni"...".
I  rapporti tra procura e Viminale sono diventati surreali: viene taciuto  il nome di uno degli agenti con i capelli raccolti in una lunga coda di  cavallo, ripreso mentre bastona un giovane. Ricorda Zucca: "Nelle  audizioni di De Gennaro e di Manganelli, attuale capo della polizia,  facemmo presente il disagio procurato dal mancato chiarimento di alcune  circostanze, per noi intollerabile e che gettava discredito  sull'immagine dell'istituzione. Era un segno troppo evidente della  mancata collaborazione".
 
Per  Zucca con l'incriminazione di Gianni De Gennaro, accusato di avere  spinto un questore a mentire, si va "allo scontro finale". In primo  grado De Gennaro è stato assolto, in appello condannato a 16 mesi. Nel  frattempo il prefetto è diventato il direttore di tutti i servizi  segreti, primo dirigente a occupare l'incarico di massimo potere creato  con la riforma dell'intelligence. E quasi tutti gli uomini in divisa  coinvolti hanno fatto carriera: i meno fortunati - sottolinea il libro -  sono quelli che in qualche maniera hanno collaborato con l'autorità  giudiziaria.
Oltre  all'allora numero uno della polizia, sul banco degli imputati sono  finiti 29 agenti per la Diaz; 45 tra carabinieri, poliziotti, guardie  carcerarie e medici per "il lager" di Bolzaneto e 25 dimostranti per le  devastazioni. La Cassazione deve ancora pronunciarsi, ma gran parte dei  reati sono già prescritti. Di fatto non ci sono responsabili per quella  che Amnesty ha definito "la più vasta e cruenta repressione di massa  della storia europea recente".
E  non si capisce nemmeno il perché di tanta violenza: è stata solo  l'impreparazione delle forze dell'ordine, che non hanno saputo prevenire  e fronteggiare i casseur in tuta nera? 
 
Andrea  Camilleri nell'introduzione al libro offre una lettura diversa: "Ho  sempre sostenuto che per me il G8 è stato una sorta di prova generale,  un tentativo di golpe da parte della destra che fortunatamente è andato  fallito. Rimango convinto che nella cabina di regia di quei giorni oltre  alla polizia e ai carabinieri ci fossero anche politici e credo, oggi  più che mai, che il fallimento di quell'operazione abbia fatto cambiare  parere circa la strategia da seguire in Italia a qualche alta  personalità politica".
Le  indagini non hanno dimostrato una regia politica. Ma dieci anni dopo,  resta aperta "la ferita", - come si intitola un altro saggio dedicato a  quei giorni, a firma di Marco Imarisio e in uscita sempre per  Feltrinelli - quella che ha infranto il sogno dei no global: i  manganelli di Genova hanno spezzato la fiducia nello Stato e hanno  allontanato un'intera generazione dalla politica. Una ferita che resta  un problema fondamentale per il futuro della democrazia nel nostro  Paese.
Gianluca Di Feo per "l'Espresso"