giovedì 24 dicembre 2009

[GE] Morte portuale: rabbia, blocchi e sciopero sino al 26

I portuali dicono basta: sciopero sino al 26
muore lavoratore di 37 anni. città e porto bloccati per ore
Una tragica beffa durante il carico sul traghetto “GNV” con i 1570 passeggeri bloccati da 20 ore per un incendio su un’altra nave. Nave bloccata, due ore di indagini rapide e la partenza mentre esplode la protesta con blocco sino a sera di 21 navi e 9.000 passeggeri. Tensioni, incendiati cassonetti, poi un vertice in Prefettura e il console della Compagnia portuale sblocca il traffico passeggeri. Tir e operazioni commerciali bloccate sino al 26 dicembre. Ripartiti i traghetti

Il dramma del porto, muore giovane camallo

Protesta dura, città e porto bloccate per ore sciopero sino al 26 quando sarà generaleAugusto Boschi-Marcello Zinola

Un tragico incidente durante il carico sul traghetto “GNV” Suprema, sul quale si erano imbarcati i 1.570 passeggeri già bloccati da 20 ore per un incendio su un’altra nave. Ma dopo due ore di indagini rapide la Suprema salpa ed esplode la protesta dei lavoratori della Culmv con blocco fino a tarda sera di 21 navi e 9.000 passeggeri. Tensioni, incendiati cassonetti, poi un vertice in Prefettura e il console della Compagnia portuale sblocca il traffico passeggeri. Tir e operazioni commerciali bloccate sino al 26 dicembre.

IL BLOCCO DI PORTO E CITTÀ La rabbia dei portuali di Genova per una nuova morte sul lavoro ha bloccato dalle 15 il porto di Genova e quindi, a cascata, il traffico autostradale e quello del ponente cittadino quando 21 navi, tra cui sei traghetti con 9.000 passeggeri in attesa di imbarco e di sbarco sono stati bloccati in partenza e arrivo. La difficile mediazione di un vertice serale in Prefettura ha reso possibile un accordo: partono i traghetti dei passeggeri,con le auto private ma il traffico commerciale resterà fermo sino al 26, Tir compresi, quando lo sciopero proclamato al momento dai portuali genovesi sarà nazionale e di due ore mentre. E intanto, in segno di solidarietà, la vigilia di Natale, per dieci minuti (dalle 12 alle 12-10) si fermeranno tutti i trasporti genovesi.

LA TRAGEDIA Un portuale della Culmv, Gianmarco Desana, di 37 anni, è stato schiacciato da un semirimorchio mentre lo «rizzava» al pavimento del garage del traghetto «La Suprema» nelle concitate fasi della partenza per Palermo. La fretta per fare ripartire il traghetto e liberare oltre 1.500 persone bloccate da ore e ore per l’incendio che la scorsa notte aveva messo fuori uso un altro traghetto GNV potrebbero essere state alla base dell’incidente: il mezzo in corso di rizzaggio era il penultimo ad essere caricato. Desana ha subito due colpi, al torace e alla testa, è morto all’ospedale dopo i tentativi di rianimazione sul posto e durante il trasporto. La reazione è stata durissima con in testa i portuali più giovani e arrabbiati. Ma non solo.

LA PROTESTA: HANNO FATTO RIPARTITE LA NAVE SENZA INDAGINI ADEGUATE Ad accendere gli animi di rabbia è stata anche il modo frettoloso in cui è stata fatta partire la nave: l’hanno fatta ripartire quasi di nascosto, dicono i colleghi di lavoro. Che tipo di indagini hanno fatto? Il pm Francesco Pinto, della procura di Genova, ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. E mentre il traghetto salpava la protesta arrivava al culmine, proseguendo in serata, con cassonetti e pallet ammonticchiati e incendiati, traghetti bloccati, 9.000 passeggeri a rischio, il nodo autostradale e il traffico cittadino in crisi. Tensioni ai valichi portuali anche con i passeggeri - molte le famiglie con figli al seguito - e poi il vertice, drammatico e duro in prefettura con le autorità portuali, la cosiddetta utenza portuale, il presidente della Regione, l’autorità portuale, il sindacato e la compagnia portuale.

Tocca dopo un’ora tesissima al console Antonio Benvenuti portare a mediazione, non facile, a chi dice basta da ore e da mesi, soprattutto ai più giovani e anche sindacalmente e politicamente meno gestibili. Di mediazioni loro non ne vogliono sapere, vogliono non sfogare la loro rabbia ma sfruttare la giornata prenatalizia: gli altri tornano a casa in vacanza, il nostro collega non ci tornerà più. Chi vale di più, la vacanza o la vita di un uomo?

BURLANDO, SITUAZIONE PESANTISSIMA -Il console non ha vita facile, il mondo del porto sarà anche cambiato, ma nel Dna dei portuali rimane la determinazione anche se le generazioni cambiano. E la discussione è lunga. Poi, lentamente, i portelloni dei traghetti si aprono, le auto iniziano a scendere e salire. In autostrada la coda e il traffico sono ancora bloccati oltre le 22 in direzione Genova, a partire da Pegli e da Bolzaneto.

Non è il ghiaccio, è la rabbia per il sangue che ha macchiato ancora una volta un posto di lavoro e, ancora una volta, il porto.Claudio Burlando dopo il vertice è teso e preoccupato: «Non scherziamo con il fuoco, la situazione è pesantissima».
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Muore portuale, la rabbia dei colleghi: "Sciopero fino al 26"

La reazione dei sindacati Cgil Cisl Uil è stata immediata e chiara: "Faremo sciopero fino al 26 dicembre - dicono - Ancora una volta un lavoratore non farà rientro a casa e questo significa che non c'è sicurezza. Il portuale di 37 anni, socio della Culmv, la Compagnia unica dei lavoratori portuali è rimasto schiacciato tra i semirimorchi di due camion, durante le manovre di rizzaggio dei mezzi. La vittima si stava occupando dell''emergenza "Suprema": il traghetto in cui, due gorni fa, c'era stato un principio di incendio che aveva fatto evacuare più di 1500 persone che erano dirette a Palermo. Ieri sera il vertice che ha portato alla decisione delo sciopero. I sindacati Cisl Cgil hanno espresso rabbia e indignazione: "Non è possibile morire sul posto di lavoro. Ennesima prova che non si tutelano abbastanza i lavoratori".
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Genova, morte Desana: porto paralizzato, bloccate 21 navi e 9 mila viaggiatori

Dopo circa un’ora di vertice in prefettura sul blocco del porto di Genova saranno liberati imbarchi e sbarchi
Dopo circa un’ora di vertice in prefettura sul blocco del porto di Genova saranno liberati imbarchi e sbarchi. Si è raggiunto un tentativo di mediazione: permettere ai passeggeri dei traghetti di partire con le loro auto al seguito, mentre lo scalo commerciale resterà fermo, con i varchi chiusi, fino a tutto il primo turno del 26 dicembre, come chiesto dai lavoratori.
E questo ciò che il console della Culmv Antonio Benvenuti ha ottenuto poco più tardi dai suoi camalli, che hanno tolto i picchetti ai traghetti e liberato il varco di passo Nuovo per permettere il transito delle auto per imbarchi e sbarchi.
La situazione resta comunque critica dopo l’escalation di rabbia delle ultime ore. Cassonetti in fiamme, pneumatici bruciati ai varchi: dopo la morte del camallo Gianmarco Desana il porto di Genova è paralizzato.

I portuali hanno levato gli scudi e protestano per la tragica fine del loro collega, schiacciato mentre rizzava un semirimorchio nel garage del traghetto Suprema, la nave gemella venuta in soccorso della Superba, bloccata per un principio di incendio con oltre 1.500 passeggeri a bordo.
Al momento il terminal è paralizzato, 15 mercantili, 6 traghetti con 9000 persone sono ferme a Genova. I camalli intendono portare avanti la rivolta lasciando sbarcare solo i passeggeri in arrivo e impedendo tutte le partenze.
«Vogliamo che dormiate sulla nave all’asciutto»: hanno detto i manifestanti ai passeggeri increduli e dubbiosi sulle sorti dei loro viaggi: dovrebbero essere garantite le navi in parenza per Palermo e Porto Torres, ma senza auto al seguito.
La situazione al porto ha sfiorato momenti di vera e propria guerriglia, con lancio di oggetti, tra i lavoratori in protesta e gli agenti della Polmare intervenuti per sedare la tensione. Un poliziotto è stato colpito alla testa.
Filt-Cgil, la Fit-Cisl e Uiltrasporti hanno quindi proclamato lo sciopero immediato dei lavoratori del porto di Genova fino al primo turno del 26 dicembre. Oltre alla partecipazione all’agitazione i lavoratori portuali di Palermo devolveranno due ore del proprio stipendio di gennaio alla famiglia della vittima.
Mercoledì 24 dicembre dalle 12 alle 12.10 fermi tutti i trasporti (treni, metro, bus).

MEMORIA DELL’ANTIFASCISMO E DELLA RESISTENZA: APPROVATA LA NUOVA LEGGE

Via libera dal Consiglio alla normativa che sostiene i soggetti che operano per la conservazione della memoria e che include anche la Fondazione di Figline di Prato e la Fondazione per il parco della pace di San’Anna di Stazzema

Il Consiglio regionale ha approvato all’unanimità (i gruppi dell’opposizione di centrodestra non hanno partecipato al voto elettronico finale, ndr) la proposta di legge che modifica la vecchia legge regionale del 2002 “Norme in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell`antifascismo e della resistenza e di promozione di una cultura di libertà, democrazia, pace e collaborazione tra i popoli”. Il provvedimento, come ha spiegato il presidente della commissione Cultura Enzo Brogi (Pd) illustrando il testo all’aula, ha tra i suoi obiettivi il sostegno, anche con contributi finanziari, ai soggetti che operano per la conservazione del patrimonio di memorie dell’antifascismo e della resistenza. Tra i soggetti di riferimento viene inserita anche la Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza-Luoghi della Memoria Toscana con sede a Figline (Prato), per la quale è prevista l’istituzione di un apposito contributo finanziario annuale. Altro obiettivo è l’individuazione di un’apposita fondazione, cui la Regione non partecipa, per la sovrintendenza del Parco Nazionale della Pace. Il soggetto fondatore del nuovo ente viene individuato nel Comune di Stazzema, Comune decorato, per la Versilia, con medaglia d`oro al valor militare per il martirio subito dalla sua popolazione con l`eccidio del 12 agosto 1944. Il Comune avrà il ruolo di determinare i confini del Parco nazionale della pace e di redigere il progetto di sistemazione dell`area destinata al Parco stesso. In attesa della costituzione della Fondazione, il Comune di Stazzema continuerà a percepire un contributo per la realizzazione di iniziative e manifestazioni che abbiano come finalità l`esaltazione dei valori storici e civili dei quali è simbolo la frazione stessa.
Giuliana Baudone (An-Pdl) ha annunciato il voto contrario del suo gruppo “perché questa legge rappresenta un’occasione mancata, quella di rendere attuale la normativa in materia con un atto di vera democrazia che bandisca barriere ideologiche e posizioni ormai superate”. “La storia – ha proseguito Baudone – ha bisogno di essere riscritta nella sua globalità. Non c’è stato solo il fascismo in Europa, ma anche i totalitarismi rossi”. Marco Montemagni (Gruppo misto) ha invece voluto mettere in risalto il “grande valore di questa legge, perché la Regione promuove i valori dell’antifascismo e della Resistenza che sono fondamentali per la nostra democrazia” e che prelude in Versilia alla nascita della Fondazione per il parco della pace. Montemagni ha chiesto anche che la Regione assuma l’impegno di migliorare la viabilità per Sant’Anna di Stazzema. Sulla stessa falsariga l’intervento di Fabrizio Mattei (Pd), per il quale “questa legge è un’opportunità colta e non un’opportunità mancata. E’ mancata invece da parte del centrodestra la volontà di capire lo spirito della legge. Con il dovuto rispetto per tutti i morti, la verità storica non si può modificare: c’era chi era dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata”.
Anche Roberto Benedetti (An-Pdl) ha parlato di “occasione persa”. “Si è perso l’occasione di creare in Toscana una memoria condivisa – ha detto -. Noi avevamo cercato dei punti di accordo, invece si è insistito per licenziare un provvedimento manicheo, che ha un’impostazione ideologica unilaterale, che lascerà un segno sulle discussioni future e che rappresenta un grosso errore di questa maggioranza”. Gino Nunes (Pd) ha al contrario rilevato che “fascismo e antifascismo sono parti sostanziali della nostra identità e che è necessario ricordare l’esperienza della dittatura in questo paese. Tutto nacque perché in un periodo di grande crisi si cominciò a pensare che si potevano mettere da parte le lungaggini della democrazia. Questi rischi si ripresentano anche oggi”. Secondo Severino Saccardi (Pd), la legge “deve essere letta per i suoi due aspetti caratterizzanti: la memoria storica e la promozione attuale della democrazia, della pace e della cooperazione tra i popoli. Nella storia e nella storia del diritto c’è sempre una norma fondante per la comunità. Per il nostro paese e per l’Europa si tratta dell’antifascismo e della Resistenza”. Stefania Fuscagni (Fi-Pdl) ha commentato che “siamo arrivati a un intoppo quando, senza nulla togliere alla Resistenza e ai suoi martiri, abbiamo chiesto che il Consiglio regionale fosse capace di dare un messaggio di identità europea attuale, che fosse di condanna per tutti i totalitarismi europei. Spero che la prossima legislatura sia capace di fare una legge sulla memoria, non su una memoria”.



Gli interventi dei consiglieri Marini (Pdci), Agresti (An-Pdl), Magnolfi (FI-Pdl) e Tei (Ps) e dell’assessore alla Cultura Cocchi

Firenze – “Non è vero che tutti ricordano quanto è accaduto e c’è invece un tentativo di riscrivere ciò che la storia ha già messo in chiaro”, ha detto Paolo Marini (Pdci). Secondo Marini è giusto avere memoria di quanto è successo in Europa “ma avendo ben chiara la memoria di quanto è successo in Italia con la dittatura e la Resistenza. E su questo non possono esserci dubbi”.
Andrea Agresti (An-Pdl) rivolgendosi proprio a Marini ha ricordato che “la storia si scrive in tanti modi e i vinti non l’hanno mai scritta” e rispetto al dibattito sul testo della legge ha aggiunto: “Se tutti ci diciamo contrari ad ogni forma e colore di totalitarismo, allora bsogna scriverlo e specificarlo bene”.

“Potevamo fare questo dibattito con più calma e più riflessione”, ha esordito Alberto Magnolfi (FI-Pdl) “così da superare posizioni schematiche e ideologiche che invece continuano a resistere in quest’aula”. Magnolfi ha ricordato che “la condanna del fascismo è indiscutibile, come indiscutibile è il ruolo della Resistenza. Manca però la condanna verso tutti i totalitarismi, che va fatta esplicitamente”. Magnolfi ha chiuso dicendo: “Potevo sottoscrivere la legge, ma per il modo in cui si è arrivati in aula annuncio che non potrò votarla”.

Secondo Giancarlo Tei (Ps), il dibattito in Consiglio regionale è andato al di là dei contenuti della legge: “Stiamo modificando una legge già esistente, per introdurre modifiche tecniche coerenti con essa, non stiamo discutendo un testo di legge ex novo”. Tei ha aggiunto che per condannare i totalitarismi non serve una legge e che “il Consiglio regionale deve legiferare sulla memoria storica di quanto avvenuto in Toscana e a questo doveva attenersi anche il dibattito”.
D’accordo con questa osservazione si è detto anche l’assessore alla Cultura Paolo Cocchi: “Il dibattito è andato al di là del testo della legge”. Cocchi ha ricordato che la Giunta aveva, in principio, presentato una proposta di legge più ampia, il cui confronto si è arenato in Commissione. “Per dare risposte al Comune di Stazzema abbiamo allora deciso di procedere a modificare la vecchia legge regionale”. L’assessore ha chiuso dicendo che bisogna “cercare di capire meglio la storia” e che “in materia di memoria condivisa la politica è in ritardo rispetto a quello che pensa il paese reale. Io penso che avremmo potuto fare di più, ma a giudicare dal dibattito del Consiglio credo che bisognerà aspettare ancora un bel po’”.
Regione Toscana

2009 "l’annus orribilis" dei penitenziari italiani


Si allunga la lista di coloro che si tolgono la vita dietro le sbarre. Oggi si sono uccisi Plinio Toniolo, ex assessore di un paese del Vicentino, e Ciro Giovanni Spirito, collaboratore di giustizia rinchiuso a Rebibbia. "Sono 70 dall'inizio dell'anno" dice l'osservatorio permanente sulle morti in carcere. Poco dopo la tragica conta aumenterà con l'impiccagione di Spirito.


Toniolo aveva 55 anni, faceva l'artigiano ed era stato assessore del Comune di Nove (Vicenza). L'uomo, spiega l'Osservatorio permanente delle morti in carcere, è il quarto detenuto che muore suicida nella casa circondariale di Vicenza negli ultimi quattro anni. "Era stato arrestato domenica per un mandato di cattura europeo. Le autorità tedesche lo accusavano di fatti molti gravi: atti sessuali su minorenne - dice l'Osservatorio - Ieri, dopo l'interrogatorio di garanzia, nel quale ha cercato strenuamente di spiegare che quelle accuse erano folli, perché lui di mani addosso a bambini e bambine non ne ha mai messe né aveva mai pensato di metterle, è rientrato in cella. E si è tolto la vita. Il corpo è stato scoperto intorno alle 16.30. Le guardie penitenziarie hanno dato l'allarme al 118, ma i medici, una volta arrivati, non hanno potuto far nulla. Toniolo era già morto per soffocamento".

Ciro Giovanni Spirito si è impiccato nella sua cella in un settore del carcere di Rebibbia che ospita i collaboratori di giustizia. Secondo indiscrezioni, nei giorni scorsi, nel corso di un colloquio con la moglie, aveva appreso che la donna voleva chiedere la separazione. Spirito era un pentito di camorra. Aveva fatto parte del clan Mazzarella, era un killer. Lui stesso aveva raccontato agli inquirenti di aver fatto parte del commando che nel marzo 1996 uccise Vincenzo Rinaldi nell'ambito della guerra per il controllo dei traffici illeciti a San Giovanni a Teduccio. Era stato il primo sicario del clan a pentirsi. Era in carcere dal gennaio 2005.

Le morti in cella, sempre secondo i dati forniti dall'Osservatorio, "sono più frequenti tra i carcerati in attesa di giudizio, rispetto ai condannati, in rapporto di circa 60/40: mediamente, ogni anno in carcere muoiono 90 persone ancora da giudicare con sentenza definitiva e le statistiche degli ultimi 20 anni - conclude la nota - ci dicono che quattro su dieci sarebbero stati destinati a un'assoluzione, se fossero sopravvissuti".



Immigrati, tensione al Cie di Ponte Galeria

Situazione tesa all'interno del centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Questa mattina, nel giro di pochi minuti, un immigrato algerino si è ferito con un rasoio mentre un tunisino ha tentato, invano, di darsi fuoco. L'algerino M. A., 25 anni proveniente dal carcere di Velletri, si trova da cinque mesi nel cie in attesa del riconoscimento da parte del suo paese di origine.

Questa mattina si è colpito più volte un braccio con una lametta per protestare contro il fatto che un connazionale che sarebbe entrato nel centro dopo di lui sarebbe stato fatto giù uscire. Il trentenne marocchino A M., invece, si trova da tre mesi e mezzo al cie ed ha provato a darsi fuoco con un accendino.
L'uomo non vuol essere rimpatriato in Marocco e chiede, invano, di poter uscire dal centro per trasferirsi in Francia, dove dice di avere dei parenti. Attualmente a Ponte Galeria sono ospitate 263 persone, 151 uomini e 112 donne. soprattutto fra gli uomini, la presenza è in deciso aumento, al punto che il settore maschile è quasi pieno.
«Le norme in tema di immigrazione a causa della lentezza delle identificazioni, non è più una eventualità ma una certezza la possibilità, per gli ospiti, di trascorrere sei mesi nel centro», denuncia i garanti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: «A questo, a Ponte Galeria, si aggiunge anche la criticità delle condizioni di permanenza aggravata, negli ultimi giorni, dall'interruzione della collaborazione tra croce rossa e asl sull'assistenza sanitaria. A Ponte Galeria tutto sarà fuorchè un bel natale».

mercoledì 23 dicembre 2009

Milano: l'Ipm e il Centro Giustizia Minorile, senza riscaldamento

Comunicato stampa, 22 dicembre 2009

Gli Assistenti Sociali dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni del Ministero della Giustizia di Milano, via Spagliardi 1, segnalano agli organi di stampa le precarie, gravi condizioni di lavoro nelle quali sono costretti ormai da mesi ad operare con accresciuto disagio dovuto all’aggravarsi della situazione atmosferica. Gli uffici siti in via Spagliardi 1, nell’edificio ove sono ubicati anche la Sezione Femminile dell’istituto penale per i Minorenni Cesare Beccaria (attualmente è presente una bimba di 5 mesi), il Centro di Prima Accoglienza (Maschile e Femminile), nonché lo stesso Centro di Giustizia Minorile, sono privi dell’impianto di riscaldamento.

Il guasto, già segnalato da anni, consentiva un riscaldamento parziale, ma dalla stagione invernale attuale si è verificato un totale blocco dell’impianto con gravissimo degrado degli ambienti predisposti, come detto, sia alla detenzione dei ragazzi, al lavoro dei dipendenti e all’accesso del pubblico. Le soluzioni provvisorie finora adottate, parziali ed insufficienti, non sono atte a far fronte alla insalubre situazione. Ci si chiede se la Dirigenza del Cgm abbia provveduto tempestivamente a ricercare le soluzioni idonee ad affrontare la ormai degenerata situazione sopra descritta. In merito è stato già avanzato esposto all’Asl.



I lavoratori dell’Ussm

Livorno: arrestato ultrà amaranto per i cori di domenica contro Berlusconi

Un tifoso di 33 anni è stato arrestato per gli episodi di ieri allo stadio Picchi di Livorno. Allo scadere del primo tempo erao stati lanciati due petardi e la partita era stata sospesa. La curva aveva inoltre intonato cori come: "Tartaglia uno di noi" e "Spinelli compraci Tartaglia", inneggiando a Massimo Tartaglia, autore dell'aggressione del presidente del Consiglio a Milano.


L'arresto è chiaramente una rappresaglia per dare un segnale a tutta Livorno, al suo spirito beffardo e ribelle e al fatto di essere la bestia nera per il centro destra. Mentre i fascisti di tutte le curve possono cantare cori indegni si prende come capo espiatorio un tifoso 33enne del Livorno. Maroni ha guidato la mano della questura labronica e il Tirreno (che guarda caso ha l'esclusiva della notizia) ha fatto da risonanza mediatica.

Ormai il regime, che ha fatto dello stadio il suo banco di prova, è completo, alla faccia di tutte quelle anime belle (poche ma rumorose) che domenica in tribuna inveivano contro la Nord. Un'altra dimostrazione di dove stiamo andando, un altra dimostrazione di come il Tirreno e il governo siano i veri portatori di odio politico, guidato ed indirizzato contro ogni critica o contestazione.


fonte: SenzaSoste

Anniversario strage del Rapido 904


23 dicembre 1984 - 23 dicembre 2009
La Strage del Rapido 904, o Strage di Natale, è il nome attribuito ad un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 presso la galleria di San Benedetto Val di Sambro, ai danni del treno rapido n.904 proveniente da Napoli e diretto a Milano.

L'attentato è avvenuto nei pressi del punto in cui poco più di dieci anni prima era avvenuta la Strage dell'Italicus:come quest'ultima e la strage della stazione di Bologna, l'attentato al treno 904 è da inserirsi nel panorama della strategia della tensione.
Questo attentato è di fatto l'ultima azione sanguinaria del periodo dell'eversione nera, ma per le modalità organizzative ed esecutive, e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione Parlamentare sul Terrorismo come il punto di collegamento tra gli "Anni di piombo" e l'epoca della guerra di "Mafia" dei primi anni novanta del XX secolo.

L'attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività.
Il treno intorno alle 19.08 fu colpito da un'esplosione violentissima mentre percorreva la direttissima in direzione nord, a circa 8 chilometri all'interno del tunnel della Grande Galleria dell'Appennino (18 km), in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità supera i 150 km/h.
La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe, a centro convoglio: l'ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella.
Mafia e camorra decisero ed organizzarono la strage di Natale. Per la bomba che il 23 dicembre del 1984 esplose sul rapido 904 15 furono i morti, 267 i feriti.
Il giudice istruttore fiorentino Emilo Gironi rinviò a giudizio otto persone. Sono tutti uomini d' onore legati alla destra eversiva: Giuseppe Pippo Calò, cassiere della mafia, Giuseppe Missi, detto o' Nasone, boss camorrista del clan dei Nuvoletta, i commercianti napoletani Alfonso Galeota, Antonino Rotolo, Luigi Cardone, i romani Guido Cercola e Franco Di Agostino, il tecnico austriaco Friedrich Schaudinn.Contro questo gruppo il magistrato ha spiccato otto mandati di cattura per strage, attentato per finalità terroristiche e di eversione, fabbricazione, detenzione e porto di ordigni esplosivi, banda armata. Quest' ultima accusa non è stata contestata allo Schaudinn che però è stato nuovamente arrestato. Il tecnico si trovava agli arresti domiciliari. Stessa sorte per Cardone, residente ad Arezzo, legato ai servizi di sicurezza. Agli altri sei imputati il provvedimento è stato notificato in carcere.
Nel corso dell'inchiesta vennero a galla diverse linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino con la Banda della Magliana: questi rapporti vennero esplicitati da diversi personaggi vicini a questi ambienti, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegavano i legami tra questi tre ambienti della criminalità emersero al maxiprocesso dell'8 novembre 1985" , di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone
La Corte di Assise di Firenze il 25 febbraio 1989 comminò la pena dell'ergastolo per Pippo Calò, per Cercola e per altri personaggi legati ai due (Alfonso Galeota,Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso boss della Camorra detto Il Boss del Rione Sanità)con l'accusa di strage. Inoltre, decretò 28 anni di detenzione per Franco Di Agostino e 25 per Schaudinn, più una serie di altre pene a altri personaggi emersi dall'inchiesta, per il reato di banda armata.
Il secondo grado venne celebrato dalla Corte di Assise di Appello di Firenze, con sentenza emessa il 15 marzo 1990 da una commissione presieduta dal giudice Giulio Catelani. Le condanne all'ergastolo per Calò e Cercola vennero confermate, e anche Di Agostino si vide la pena commutata in ergastolo. Misso, Pirozzi e Galeota vennero invece assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo. Il tedesco Schaudinn venne invece assolto dal reato di banda armata, ma rimase incolpato della strage e condannato a 22 anni.
Il 5 marzo 1991 la 1a sezione della Corte di Cassazione presieduta dal discusso giudice "Corrado Carnevale" annullò la sentenza di appello. Il sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti era contrario e mise in guardia i giudici dal far prevalere l' impunità del crimine.
Carnevale rinviò comunque di nuovo a giudizio gli imputati presso un'altra sezione della Corte d'Assise di Firenze. Quest'ultima il 14 marzo 1992 confermò gli ergastoli per Calò e Cercola, condannò Di Agostino a 24 anni e Schaudinn a 22. In compenso, Misso si vide la condanna commutata a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre le condanne di Galeota e Pirozzi vennero ridotte a un anno e sei mesi: tutti e tre vennero assolti dai reati di strage.
Quello stesso giorno, Galeota e Pirozzi, insieme alla moglie Rita Casolaro ed alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno stavano ritornando a Napoli quando, durante il viaggio, incorsero in un agguato: la loro auto fu speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra che li seguivano sull'autostrada A1, all'altezza del casello di Afragola/Acerra, alle porte di Napoli. Le armi da fuoco dei killer lasciarono sul terreno Galeota e la Sarno, quest'ultima addirittura con un colpo di pistola in bocca. Soltanto Giulio Pirozzi e sua moglie riuscirono miracolosamente a uscire vivi da quella che fu una vera e propria esecuzione di camorra, anche grazie al sopraggiungere di un’auto della polizia stradale dal senso inverso di marcia, che così impedì ai killer di completare il lavoro, e gli assassini si dileguarono. Pirozzi, benché ferito gravemente, si salvò anche perché si era finto morto nel corso della sparatoria.
La 5a sezione penale della Cassazione il 24 novembre 1992 confermò la sentenza, riconoscendo la "matrice terroristica mafiosa".

Il 18 febbraio 1984 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo la cui posizione era stata stralciata dal processo principale. Egli fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell'esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera del 1984. L' esponente del Msi, buon amico di Giuseppe Missi, consegnò al boss della camorra alcuni candelotti di dinamite poi usati per confezionare la bomba piazzata sul rapido Napoli-Milano ed esplosa mentre il treno transitava sotto la cosiddetta grande galleria dell' Appennino. L' ordigno, sistemato a Firenze nella griglia portapacchi della nona vettura, fu innescato con un radiocomando. Probabilmente da Vernio fu lanciato un impulso radio che accese il timer della terribile miscela formata da pentrite (sintex), polvere da mina (T-4) e nitroglicerina.
Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest'ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere le spese processuali.

Guido Cercola si è suicidato in carcere a Sulmona il 3 gennaio 2005, soffocandosi con dei lacci di scarpe. Rinvenuto agonizzante in cella, morì durante il trasporto in ospedale

La strage, scrive il pubblico ministero Pierluigi Vigna, fu portata a termine dai clan mafiosi e camorristi (collegati da più di un picciotto tra cui anche Gerlando Alberti junior) per distogliere l' attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali della criminalità organizzata che in quel tempo subivano la decisa offensiva di polizia e magistratura, per rilanciare l' immagine del terrorismo come l' unico, reale nemico contro il quale occorreva ancora accentrare ogni impegno di lotta allo Stato.
Ma la marcata connotazione politica di molti imputati, i collegamenti dei due gruppi con la destra eversiva, lasciano capire come l' obiettivo fosse duplice: rinforzando sistemi criminali che tendono ad organizzare propri ordinamenti particolari protesi a sostituire l' ordinamento generale si cerca di abbattere lo Stato
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Il dolore e il lutto sono diventati impegno civile
MEMORIA. 23 dicembre 1984, una bomba sul rapido 904 Napoli-Milano esplode facendo una carneficina: 15 i morti e oltre 300 i feriti. Si toglie la vita anche un poliziotto accorso per prestare aiuto: i corpi martoriati sono per lui una visione inaccettabile.

A colloquio con Antonio Celardo, presidente dell’Associazione che tutela la memoria di un episodio di terrorismo nero sul quale non si conosce tutta la verità relativa a mandanti ed esecutori.
Nel giorno del quarantesimo anniversario della strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, a Napoli l’Associazione che ricorda invece la strage del treno rapido 904 avvenuta il 23 dicembre 1984 riceve dal Comune una sede: un appartamento confiscato al clan camorristico dei Contini. Incontriamo Antonio Celardo, il terzo presidente in ordine di tempo dell’Associazione che raccoglie i sopravvissuti della strage, i parenti delle vittime e quanti chiedono giustizia

Presidente, quando vi siete costituiti in Associazione?
Nel 1985, dopo circa tre o quattro mesi dalla strage. L’obiettivo di avere una sede ha rappresentato uno dei nostri temi prioritari e dopo quasi venticinque anni, grazie all’impegno del sindaco Rosa Russo Jervolino e della Regione Campania, che ha finanziato la ristrutturazione di questo appartamento con i fondi del Programma operativo nazionale sicurezza, siamo riusciti a ottenere un luogo dignitoso e consono che ci consente di portare avanti tutte le nostre iniziative.

Ci parla di queste iniziative?
L’Associazione si adopera per la tutela dei diritti delle vittime, per l’assistenza psicologica dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, per la ricerca della verità e la conservazione della memoria.

Cosa prevedono le leggi in questa materia?
La legislazione che tutela i diritti di chi in occasione di queste stragi ha perso la vita viene spesso disattesa a causa di interpretazioni restrittive. Accade proprio questo con la legge numero 206 del 2004 che prevede una riduzione di dieci anni lavorativi per il coniuge e i figli della vittima.

Sono stati compiuti dei passi avanti?
Adesso vi è un referente in ogni sede territoriale dell’Inpdap, mentre per quanto riguarda l’Inps è stato istituito un centro presso la sede nazionale di Roma dove possono essere evase le istanze degli aventi diritto. Insieme alle associazioni che ricordano altre stragi terroristiche abbiamo presentato degli emendamenti per richiedere la giusta interpretazione della legge. Ma, purtroppo, questo governo non ne ha tenuto conto.

E adesso?
Non ci resta che attendere la conclusione dell’iter della finanziaria per sapere se qualcuno di questi emendamenti è stato recepito.

La verità giudiziaria invece?
La sentenza è passata in giudicato ma sono stati individuati solo alcuni colpevoli come Pippo Calò, il cosiddetto cassiere della mafia, e il suo sodale Guido Cercola. Rimangono sconosciuti gli esecutori materiali e i mandanti. Durante il corso dei processi ci sono stati molti condizionamenti che non hanno consentito di giungere alla verità.

Come mai?
Non si è fatta chiarezza nella solita area grigia che ha visto interagire in occasione di queste stragi appartenenti alla massoneria, apparati dei servizi deviati e lobby politiche affaristiche. Solo qualche collaboratore di giustizia potrebbe consentire la riapertura del processo. Noi ora ci aspettiamo molto dalla ricerca storica, le motivazioni della strage potrebbero emergere dall’attenta analisi di quei documenti.

Ci sono state anche molte assoluzioni eccellenti in questa storia?
Il boss del rione Sanità, Giuseppe Misso, inizialmente viene considerato uno di quelli che trasporta il materiale esplosivo da Napoli a Firenze ma poi viene assolto. Lo stesso avviene per il deputato missino Massimo Abbatangelo, che però viene successivamente condannato a sei anni per detenzione di materiale esplodente.

E adesso?
Faremo di questa sede un luogo della memoria dove conserveremo tutto il materiale che riguarda la strage per consentire così a ricercatori, storici e giovani studenti di poter fare i propri studi che porteremo nelle scuole. Con la strage del rapido 904 si concludono gli anni della strategia della tensione e noi, che abbiamo trasformato il lutto individuale in impegno civile, abbiamo il dovere di trasmettere alle giovani generazioni i valori democratici e non quelli dell’esasperazione. Anche una mostra fotografica di Luciano Nadalini ci aiuterà a perseguire questo obiettivo.

Quanti sono gli associati?
In Campania poco meno di duecento, ma sono tanti coloro che risiedono fuori della nostra regione.

Avete ottenuto una sede in un bene confiscato. La decisione ha un alto valore simbolico?
Certamente, anche se abbiamo dovuto attendere tutto questo tempo. Nel 2004 abbiamo siglato con il comune di Napoli un protocollo che prevedeva un aiuto per la tutela e l’assistenza ai nostri associati e finalmente, grazie a quella stipula, dopo altri quattro anni oggi inauguriamo questa sede. Vorrei però sottolineare che la vendita all’asta di beni come questo, come prevede la norma inserita nell’ultima legge finanziaria, ci preoccupa parecchio.

Come è cambiata la vita da quel giorno?
Era domenica e io mi recavo dalla mia famiglia in provincia di Modena per trascorrere le festività natalizie. Il treno parte da Napoli alle 12,55 ma quando giunge in quella galleria tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro un’esplosione terrificante mi fa svenire. Senza coscienza mi ritrovo nel corridoio della carrozza, sommerso tra un groviglio di lamiere contorte. Avevo paura di toccarmi perché non sentivo più il mio corpo. Solo dopo qualche minuto ho compreso di essere ancora vivo e in quel momento pensai subito a un attentato terroristico perché il treno stava attraversando la stessa galleria dove dieci anni prima venne realizzato l’attentato all’Italicus. Il mio pensiero va continuamente a coloro che non ci sono più e a tutti i loro famigliari. Quest’esperienza ci ha segnarti per sempre. La nostra vita è cambiata. La strage è diventata un pensiero quotidiano.

da Indymedia






Comunicato sulla manifestazione OPERAIA FIAT a Roma

Centinaia di operai hanno manifestato ieri 22 dicembre nella piazza antistante Montecitorio dove si è svolto l´incontro tra Azienda, Governo e Sindacati Concertativi. E´ subito balzato agli occhi l´enorme schieramento di polizia e guardia di finanza che ha incalzato qualsiasi tentativo di dare vita a cortei spontanei che potessero circondare il palazzo della trattativa.E´ stata altresì evidente l´azione della burocrazia sindacale che si è impegnata a fondo per sedare gli animi sul nascere di qualsiasi accenno di rabbia operaia.Certamente non è il loro posto di lavoro e il loro futuro ad essere messo in discussione e del resto sono gli stessi che in passato hanno apprezzato il Piano Marchionne continuando a sostenerlo nonostante le proteste. Le dichiarazioni del Padron MARCHIONNE non aggiungono nulla alle indiscrezioni che già trapelavano nelle giornate precedenti. La chiusura di Termini Imerese a fine 2011 è un fatto, il ridimensionamento del costo del lavoro a Pomigliano una "necessità per salvare la competitività dell´Azienda sui mercati" in assenza di incentivi statali. Dentro questa prospettiva quella di ieri è quindi una occasione perduta, l´occasione di far pesare sull´intero paese la rabbia per un futuro incerto che coinvolge ampi settori sociali e interi comparti produttivi, denunciare pesantemente il parassitismo di una classe padronale (quella FIAT in special modo) capace solo di succhiare finanziamenti pubblici per garantirsi gli investimenti e scaricare sull´intera collettività il peso della crisi, denunciare le complicità di Governo e Sindacati Concertativi (FIOM-FIM-UILM-FISMIC-UGL) che oltre ad aver firmato continuamente deleghe in bianco a MARCHIONNE non hanno neanche posto il problema della riconversione o della continuità del reddito per migliaia di famiglie coinvolte dal "disimpegno FIAT" in Italia. Sicuramente sulla giornata di ieri pesa anche la volontà di non aver voluto convocare lo sciopero nazionale (fatta eccezione delle Organizzazioni Sindacali di Base) di tutto il Gruppo coinvolgendo anche gli stabilimenti di Mirafiori e Melfi.
Roma 22/12/09
COBAS DEL LAVORO PRIVATO

martedì 22 dicembre 2009

Carceri,Salerno,suicida 45enne-Salgono a 171 i morti nel 2009

I familiari: si apra indagine.Giallo al carcere di Salerno. Tragica fine di un pregiudicato, aveva dato appuntamento alla figlia per Natale. Marco Toriello soffocato da una cinta che non si trova. Quindici giorni fa tentò di togliersi la vita.

Si sarebbe suicidato in carcere (venerdì 18) impiccandosi con una cinta, che ora non si trova, pochi giorni prima di tornare a casa agli arresti domiciliari. E la famiglia chiede chiarimenti su una morte che ritiene sospetta. Soltanto il giorno prima, Marco Toriello, 45 anni, di Eboli, aveva avuto un colloquio con la figlia poco più che diciottenne e le aveva chiesto di portargli capretto e patate per la vigilia di Natale, quindi dei soldi in contanti «per fare la spesa e festeggiare con gli amici anche il mio ritorno a casa». «Mi raccomando – aveva detto alla figlia – mercoledì arriva puntuale, ci facciamo una lunga chiacchiera e gli auguri».Insomma, un comportamento tranquillo che ha spinto la sorella di Toriello, Alfonsina, a presentare al magistrato Marinella Guglielmotti una richiesta di autopsia. La sua famiglia non crede al suicidio. E non ci crede neanche il legale, l’avvocato Nicola Naponiello, che da anni lo assisteva. La famiglia chiede soprattutto di chiarire alcuni punti oscuri dell’intera vicenda. Innanzitutto i segni sul corpo. Segni che, a detta di un perito di parte (il medico legale Panfilo Maiurano), sarebbero incompatibili con una morte persoffocamento.
Quindi i segni lasciati sul suo corpo dalla cinta (il mistero di quella cinta presente nella sua cella torna più volte nella vicenda, soprattutto dal momento che appena 15 giorni prima aveva tentato un altro gesto estremo poi fallito) sarebbero asimmetrici: più larghi avanti e più stretti indietro. E non solo: i segni della cinta non sarebbero all’altezza del mento ma nella parte bassa del collo.
Piedi e mani sarebbero dunque bianchi (altro particolare strano viste le cause del decesso) mentre su tutta la schiena e anche su parte del torace ci sarebbe un’enorme ematoma. Marco Toriello, inoltre, soffriva di uno stato avanzato di cirrosi epatica e, nonostante ciò, sarebbe stato sottoposto (secondo la denuncia presentata dalla famiglia) a un cura con antidepressivi.
A suscitare perplessità sarebbe stata anche la cronologia degli eventi che avrebbero preceduto la sua morte. Alle 19.30 Toriello avrebbe chiesto una coperta a un secondino. Alle 19.50 avrebbe parlato e scherzato con lo stesso secondino sulle condizioni meteorologiche, sull’abbassamento delle temperature.
Alle 20.05 sarebbe stato trovato morto. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia penitenziaria sarebbe salito sul ciglio del letto, avrebbe posizionato la cintura vicino alle sbarre e si sarebbe fatto scivolare fino a soffocarsi. Il tutto pochi minuti dopo essere stato visto vivo dal secondino.
Pochi, secondo la famiglia, viste le sue precarie condizioni di salute. Alle 00.30 la famiglia viene avvisata dai carabinieri. Le autorità penitenziarie danno appuntamento alla famiglia per le 8 del mattino a Fuorni. In realtà il cadavere era stato trasportato alle 23.40 all’obitorio del cimitero di Brignano, in custodia giudiziaria.
Dove tuttora si trova la salma. «Siamo rimasti tutti sconvolti per quanto accaduto – commenta il direttore del penitenziario di Fuorni, Alfredo Stendardo – era un uomo mite e di compagnia. Aveva superato con successo i colloqui psichiatrici. Non ce lo aspettavamo… Mezzora prima aveva chiesto una coperta…». Sulla presenza della cinta in cella, il direttore taglia corto: «Gli psichiatri avevano detto che stava bene, perché non doveva avere una cinta?»
Mercoledì la sorella di Marco Toriello, Alfonsina, alle 10 si presenta al carcere di Fuorni per un colloquio. Ma riesce vedere il fratello soltanto alle 13 e per soli dieci minuti. Le viene detto che Marco è a colloquio con un magistrato. Cosa che le viene confermata anche dall’uomo. «Mi ha chiesto di collaborare», le dice. Poi, dopo dieci minuti, va via: «Devo andare dal medico». «Non capisco il mio assistito di cosa dovesse parlare con il magistrato – commenta il legale della famiglia Toriello, Nicola Naponiello – e soprattutto in mia assenza. Non capisco per cosa dovesse collaborare, abbiamo chiesto di sapere chi sia questo magistrato». Su questo colloquio che ha insospettito la famiglia il direttore del carcere, Alfredo Stendardo, taglia corto: «Non posso rispondere a questo».
«Voglio vedere la cinta, il pm spero l’abbia vista: mio fratello non aveva cinte in cella. Ero io a portargli gli abiti: cinte e lacci non li facevano entrare. Gli avevano addirittura tolto le lenzuola dopo il primo tentativo di suicido, per poi ridargliele. Un tentativo per attirare l’attenzione, ce lo aveva confidato. Non si sarebbe mai tolto la vita. Era imbottito di medicinali antidepressivi e non riceveva le cure che gli spettavano per la malattia che aveva». Alfonsina Toriello è distrutta dal dolore ma molto lucida. «Avevo portato il risultato di alcuni esami che Marco aveva fatto: aveva i marker tumorali elevati, aveva bisogno di fare degli approfondimenti. Sono stati fatti? Chi sono gli psichiatri che lo curavano? Si può imbottire di medicine pesanti un malato di cirrosi epatica? Stamattina (ieri, per chi legge) ci hanno fatto aspettare fuori al carcere quando il suo corpo era già al cimitero. Abbiamo dovuto aspettare che i dirigenti facessero le ”loro cose” prima di poter parlare con loro. Non è normale. Era così contento di tornare a casa…

Published by RedNest dicembre 21st, 2009

lunedì 21 dicembre 2009

Marco Toriello: Un’altra morte preannunciata

La morte “anomala e peraltro preannunciata” di Marco Toriello si aggiunge a quella di Franco Mastrogiovanni, di Stefano Cucchi e della detenuta politica Diana Blefari. Viene così eguagliato il triste “record” del 2001: il numero più alto di detenuti suicidi nella storia della Repubblica. Il totale dei detenuti morti nel 2009 sale così a 173, le cause di tali decessi sono da ricercarsi principalmente nei maltrattamenti subiti e nella mancanza di assistenza sanitaria.Tutto ciò ci pone seri dubbi rispetto alla tenuta democratica del nostro Paese.
I Familiari dei Detenuti, i Comitati, e le Associazioni, impegnati per la difesa dei diritti civili e costituzionali nelle carceri italiane, reclamano VERITA’ E GIUSTIZIA sulle morti che avvengono quotidianamente nelle carceri e nei reparti psichiatrici italiani. L’agghiacciante media dei decessi è di 1 ogni 2 giorni, ed è destinato ad aumentare.
Verità e Giustizia che sono state chieste a gran voce con il presidio del 12 dicembre sotto il carcere di Fuorni. Sono anni che a Salerno denunciamo pubblicamente la mancata assistenza sanitaria, la casermizzazione, l’alto costo dei generi alimentari all’interno del carcere, le mille difficoltà dei familiari per i colloqui.
Abbiamo richiesto più volte un’attenzione particolare da parte delle istituzioni attraverso visite periodiche all’interno delle strutture, richiedendo finanziamenti e attuazione di progetti reali, quali corsi di formazione, forme lavorative volte al reinserimento sociale, forme di sostegno ai familiari e garanzia di momenti di socializzazione tra i detenuti.
Purtroppo tutte queste denuncie e richieste sono cadute nel vuoto.




Umanizzare la vita fuori e dentro il carcere!

I Consiglieri Regionali salernitani e i rappresentanti parlamentari di Salerno “i veri fannulloni ed assenteisti”,che pensano solamente al proprio tornaconto personale, dovrebbero farsi un bell esame di coscienza, e provare a varcare, almeno una volta, le porte del carcere per controllare personalmente le condizioni dei detenuti; solo in questo modo si renderanno conto realmente della gravità della situazione!









Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti…

Una grande responsabilità ricopre anche il muro di gomma rappresentato dall’assordante silenzio del mondo culturale e dell’informazione locale, fatta eccezione per qualche organo della carta stampata salernitana.

• Prevenire le morti in carcere, nei lager psichiatrici, così come sui posti di lavoro;

• L’amnistia non per i potenti ma per quell’umanità disperata (il 60% dei detenuti potrebbe usufruire di misure alternative al carcere);

• Provvedere al reinserimento sociale degli ex detenuti.

In Italia il numero dei senza reddito aumenta spaventosamente, ufficialmente ci sono 2 milioni di disoccupati, ma realmente, tra lavoro nero e coloro mai iscritti ai centri per l’impiego, l’esercito dei disperati supera di gran lunga, se non triplica, i milioni di disoccupati denunciati da Draghi.

Per questo grande esercito di disperati le uniche certezze rimangono la strada, la de pressione, l’alcolismo, la droga, la rabbia, la rassegnazione, il suicidio, oppure il delinquere, e di conseguenza il carcere.

Familiari Dei Detenuti – Comitato di Lotta Dei Corsisti Progetto Conoscenza e Lavoro – Rete Studenti Salerno – CSA Asilo Politico Salerno – COBAS Comune di Salerno – CGIL Sanità

69° suicidio in carcere: eguagliato il "record" nella storia della repubblica


L’esame esterno ha confermato la natura del decesso: Marco Toriello, il 43enne di Eboli trovato cadavere dietro le sbarre, si è tolto la vita venerdì sera impiccandosi nella sua cella all’interno della casa circondariale di Salerno Fuorni.
Il magistrato, dottoressa Guglielmotti, dovrà decidere se aprire un fascicolo sulla morte dell’uomo disponendo l'esame autoptico così come è stato richiesto dai familiari della vittima che hanno denunciato una serie di perplessità circa la natura del decesso del congiunto, oppure liberare la salma. L'esame esterno, effettuato dal medico legale Giovanni Zotti nella serata di venerdì, come già detto non lascerebbe adito a dubbi. Toriello si è tolto la vita legandosi una corda al collo. I familiari chiedono però chiarezza in relazione ad alcuni lividi che il giovane presenterebbe sulla schiena. Nulla, inoltre, stando alla denuncia degli stessi, lasciava presagire un atto così estremo. Alcuni giorni fa il 43enne aveva avuto un colloquio con la figlia con la quale si era ripromesso di rincontrarsi il 23 dicembre per gli auguri di Natale. Poi il colloquio con il magistrato di cui, però, non si è appreso il contenuto. Qualcosa che possa aver turbato a tal punto l’uomo da spingerlo al suicidio? Sembra davavero improbabile.

Marco Toriello era noto alle forze dell’ordine per reati inerenti il mondo degli stupefacenti. Era stato arrestato nel dicembre dello scorso anno a seguito di una tentata rapina messa a segno ai danni di una fruttivendola di Eboli. L’uomo fu prima messo in fuga dal compagno della commerciante e successivamente arrestato dai carabinieri della compagnia di Eboli.

Malato da tempo di epatite e con altri gravi problemi di salute, era ristretto nel reparto detentivo della locale casa circondariale, destinato ai tossicodipendenti. Le sue condizioni di salute, tuttavia, erano delicatissime e lo stesso necessitava di cure costanti. Ecco perché l'episodio ripropone, come evidenziato dal segretario provinciale della penitenziaria Lorenzo Longobardi, la necessità di istituire presso l'ospedale cittadino “Ruggi d'Aragona” di via San Leonardo il reparto detentivo per i detenuti affetti da gravi patologie. Il reparto, che sarebbe già stato ultimato, doveva aprire i battenti ad ottobre ma, ad ora, ancora non è stato attivato. Ciò fa sì che i detenuti afflitti da problemi di salute restino ristretti a Fuorni in un ambiente, cioè, certamente non adatto a loro. Dietro le sbarre della casa circondariale di Salerno Fuorni, infatti, la situazione dal punto di vista “sanitario” non è tra le più rosee: i detenuti, come confermato dagli ultimi dati, sono più a rischio di contrarre malattie rispetto al resto della popolazione e, il contagio, è davvero dietro l'angolo.

Le patologie di maggiore ricorrenza sono quelle correlate allo stato di tossicodipendenza dei detenuti presenti che rappresentano circa il 20% dell'intera popolazione ristretta: ciò è causa di epatopatie (circa il 10%) quali l'epatite da virus C e la cirrosi epatica, le micosi e la sindrome da Hiv, la cui frequenza è in aumento. L’epatite C è la compagna subdola e silenziosa di centinaia di detenuti scatenandosi tramite alcune situazioni e comportamenti tipici nelle carceri come la diffusa pratica del tatuaggio effettuato con ogni mezzo come aghi rimediati iniettandosi sotto la pelle l’inchiostro delle penne a sfera, il sovraffollamento e la tossicodipendenza. A Salerno sono circa 500 i detenuti “prigionieri” di un sistema che, a causa dei continui tagli alla spesa pubblica, appare sempre meno adeguato alle esigenze di chi in carcere dovrebbe compiere un percorso di reinserimento nella società. Si registra – ed è questo un altro dato allarmante – un aumento della presenza di detenuti affetti da cardiopatie di diversa natura e di soggetti con disturbo della psiche per effetto della perdita di libertà. Tutti questi problemi sono poi acuiti dallo stato della Casa circondariale di Salerno Fuorni che, inaugurata nel 1981, risente dal punto di vista strutturale delle carenze proprie di una edilizia ormai superata nel tempo nonostante i costanti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, attuati in base alla vigente normativa penitenziaria, abbiano senz'altro apportato sostanziali miglioramenti di vivibilità garantendo, nel contempo, un adeguato stato di conservazione dell'immobile correlato ad un buon livello di funzionalità interna dei servizi. Tra i problemi maggiormente risentiti, vi è la vetustà della rete fognaria di quella idrica e dell'impiantistica in generale. Gli interventi di ristrutturazione, inoltre, non hanno interessato la totalità dei reparti detentivi.
Da Cronache Salerno

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Nuovo Record Morti In Carcere

Marco Toriello, 45 anni, tossicodipendente, gravemente ammalato, venerdì scorso si è ucciso impiccandosi nella sua cella del carcere di Salerno. Si tratta del sessantanovesimo recluso che si toglie la vita dall’inizio dell’anno. Viene così eguagliato il triste “record” del 2001: il numero più alto di detenuti suicidi nella storia della Repubblica. Il totale dei detenuti morti nel 2009 sale così a 171.

Anche per Marco, come in altri casi recenti, i familiari non credono al suicidio e vogliono che la magistratura intervenga, disponendo un’indagine. E se è vero che ogni nuova morte in carcere si presta ad alimentare sospetti e polemiche (e i parenti hanno il sacrosanto diritto di chiedere e ottenere una verità certa), l’attenzione alla singola vicenda non deve far dimenticare che le “morti di carcere” rappresentano sempre e comunque una sconfitta per la società civile.

Negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morte 1.560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodipendenti.

Ma è davvero scontato ed inevitabile che i detenuti muoiano, seppur giovani, con questa agghiacciante frequenza di 1 ogni 2 giorni? No, assolutamente no!

I morti sarebbero molti meno se nel carcere non fossero rinchiuse decine di migliaia di persone che, ben lontane dall’essere “criminali professionali”, provengono piuttosto da realtà di emarginazione sociale, da storie decennali di tossicodipendenza, spesso affette da malattie mentali e fisiche gravi, spesso poverissime.
Oggi il carcere è pieno zeppo di queste persone e il numero elevatissimo di morti ne è conseguenza diretta: negli anni 60, come dimostra la ricerca allegata, i suicidi in carcere erano 3 volte meno frequenti di oggi, i tentativi di suicidio addirittura 15 volte meno frequenti… e non certamente perché a quell’epoca i detenuti vivessero meglio.

Oggi il 30% dei detenuti è tossicodipendente, il 10% ha una malattia mentale, il 5% è sieropositivo hiv, il 60% una qualche forma di epatite, in carcere ci sono paraplegici e mutilati, a Parma c’è una sezione detentiva per “minorati fisici”… e si potrebbe continuare.
Le misure alternative alla detenzione vengono concesse con il contagocce: prima dell’indulto del 2006 c’erano 60.000 detenuti e 50.000 condannati in misura alternativa; oggi ci sono 66.000 detenuti e soltanto 12.000 persone in misura alternativa.
Più della metà dei detenuti sono in attesa di giudizio, mentre 30.500 stanno scontando una condanna: di questi quasi 10.000 hanno un residuo pena inferiore a 1 anno e altri 10.000 compreso tra 1 e 3 anni.
Molti di loro potrebbero essere affidati ai Servizi Sociali, anziché stare in cella: ne gioverebbero le sovraffollate galere e, forse, anche la conta dei “morti di carcere” registrerebbe una pausa.
fonte: OSSERVATORIO PERMANENTE SULLE MORTI IN CARCERE

domenica 20 dicembre 2009

I fascisti di SAYA aprono una sede a Genova!!!



riporto di seguito un articolo uscito oggi, domenica 20 dicembre 2009, sul Secolo XIX (Liguria, pag.13):

Camicia kaki, pantaloni neri: è tornato l'Msi il movimento destra nazionale ha aperto la sede genovese

I fondatori sostengono di avere già 2 mila iscritti in Liguria: tutti i militanti in divisa, Il partito è pronto a correre per le regionali

GENOVA - Camicia kaki, cravatta e pantaloni neri. Sul petto un'aquila reale. Le ronde nere sono tornate. Anzi torneranno da febbraio: «Presenteremo la domanda, come ha chiesto il presidente Berlusconi». Con gran sorrisi e parlantina a raffica lo comunica Maria Antonietta Cannizzaro, presidente nazionale del rifondato Msi-Destra Nazionale, movimento che ieri ha aperto una sede a Genova, in via Colombo 12 all'ammezzato del palazzo in cui ha preso casa anche Sergio Cofferati, ex leader della Cgil, ex sindaco di Bologna e ora europarlamentare del Pd.

A Genova il nome di Maria Antonietta Cannizzaro nuovo non è. Negli ultimi cinque anni di lei e soprattutto del marito, Gaetano Saya, si è parlato parecchio. E probabilmente si continuerà a farlo visto che non più di un mese fa il gup Ferdinando Baldini ha rinviato a giudizio l'istrionico Gaetano Saya e Riccardo Sindoca, direttore generale e vicedirettore del Dssa, Dipartimento studi antiterrorismo. Che cosa si nasconde dietro a questa sigla?

Nel 2005 la Digos genovese al termine di un'indagine di qualche mese aveva pensato di trovarsi davanti ad una nuova Gladio. Poi, dopo i primi arresti e la prosecuzione dell'inchiesta coordinata dal pm Francesca Nanni, la "polizia parallela" costituita da Saya si è dimostrata molto più casareccia del previsto anche se i protagonisti di questa vicenda, compresa Maria Antonietta Cannizzaro, continuano a prendersi molto sul serio: «Della Dssa - ha ribadito lei ieri - si è servito anche un primo ministro». Comunque sia Sindoca ed altri 19 affiliati sono stati rinviati a giudizio per associazione a delinquere finalizzata a usurpazione di funzioni e, a vario titolo, rivelazioni di segreti di ufficio e illecito uso di dati riservati in violazione della legge 121 del 1981.

«Storia vecchia quella. Il pm Nanni ha già detto che questo fascicolo non andrà da nessuna parte» sospira Cannizzaro circondata da alcuni dei «2000 iscritti che già abbiamo in Liguria». Così la moglie di Saya - che guarda caso è anche "rifondatore" del partito Msi-Destra Nazionale (la fiamma tricolore è la stessa del vecchio e vero Msi, ma il nero è talmente sbiadito da sembrare intristito) - ora si prepara a sbarcare nella politica regionale ligure. Il partito si è già dotato di un coordinatore regionale, Rodolfo Gaeta - ieri anche lui in camicia kaki e cravatta nera - e di una struttura con tanto di militanti in divisa. Prima tappa, le elezioni regionali liguri, nel prossimo marzo. «Sì, certo che ci presenteremo. Faremo una lista di appoggio al PdL. Noi siamo tutti per il centrodestra, per Silvio Berlusconi» spiega lei. E Gianfranco Fini, che in fondo è stato il delfino di Giorgio Almirante, il primo fondatore del Movimento sociale? «No, con lui mai, è un traditore».Poi, sempre più convinta: «Saremo al fianco di Sandro Biasotti, ne abbiamo già parlato con lui». Il fatto è che Sandro Biasotti, candidato del centrodestra per la presidenza della Regione Liguria, usa per definire Maria Antonietta Cannizzaro lo stesso appellativo che durante gli anni dell'inchiesta è stato usato per definire Gaetano Saya: «Quella donna è una millantatrice. Non la conosco, non l'ho mai incontrata e non faremo nessuna alleanza con loro».AL. COST.
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CHI è GAETANO SAYA?

Gaetano Saya nasce a Messina nel 1956. Suo nonno, Matteo Francesco Gesuino, aveva partecipato alla marcia su Roma.

Nel 1970, all’età di appena 14 anni, partecipa ai moti fascisti di Reggio Calabria. Nella sua biografia ufficiale inserita sul sito di Destra Nazionale si può leggere: «a diciotto anni si arruola nel disciolto Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, dopo l'addestramento e una breve permanenza, viene ingaggiato dai Servizi Segreti della N.A.T.O., esperto in ISPEG(Informazioni, Sabotaggio, Propaganda e Guerriglia), controspionaggio e antiterrorismo».

Cooptato nel 1975 dal Generale Giuseppe Santovito, allora Capo del SISMI, viene iniziato in una Loggia Massonica riservata; da Apprendista di primo grado in breve diviene Maestro Venerabile della Loggia «Divulgazione 1» a carattere internazionale.

Nel 1997, sempre secondo il sito, «si congeda ai massimi livelli. Nel Novembre dello stesso anno viene citato come principale teste d'accusa della Procura della Repubblica di Palermo nel processo contro Giulio Andreotti. Gaetano Saya accusa Andreotti di essere il mandante dell'omicidio del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Questa versione dei fatti gli era stata rivelata dal Generale ed amico fraterno Giuseppe Santovito, uomo coinvolto nei misteri.
Congedatosi dai Servizi, e messosi in sonno massonico, decide insieme ad un gruppo di provata fedeltà di dar vita al movimento politico, voluto da Almirante e poi soppresso, «Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale». Laureato in Legge e Scienze Politiche, Cavaliere dell'Ordre International de la Paix. Il primo Dicembre 2002 in Milano è stato nominato Presidente onorario dell' Unfp (Unione Nazionale Forzedi Polizia), il primo sindacato di Polizia.

Di recente ha assunto la Direzione Generale dell'Ente denominato: Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo - Interforze di Polizia in funzione Antiterrorismo Islamico.

Il Dssa è nato subito dopo gli attentati di Atocha, ha scopi di intelligence operativa ed è legato da un filo sottile alla Cia. La sigla significa Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo, è un gruppo internazionale con alla guida Gaetano Saya e Riccardo Sindoca, dai quali dipendono un numero imprecisato di persone che provengono da Italia , America ,Spagna, Francia, Germania, Pakistan, Russia e Israele. La sede legale è l'Italia mentre quelle operative non vengono svelate.

Rinviato a giudizio nel 2004 per aver diffuso "idee fondate sulla superiorità e l'odio razziale", lo stesso che qualche anno fa parlò degli immigrati come "un pericolo per la nostra razza".

Nel 2005 Gaetano Saya viene arrestato dalla Digos di Genova con l’accusa di essere a capo di una presunta organizzazione di servizi segreti paralleli in contatto con CIA e Mossad, la quale avrebbe anche reclutato per l’Iraq Fabrizio Quattrocchi.

Interrogazione in commissione di giustizia sul caso di Paolo Scaroni: vittima di uno Stato distratto

Una interrogazione sul caso di Paolo Scaroni, il giovane ultras di Castenedolo che nel settembre 2005 fu mandato in coma per due mesi dalle manganellate della celere alla stazione di Verona è stata presentata al Ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Abbiamo sentito l'onorevole Paolo Corsini che ha firmato l'interrogazione insieme al suo collega Pierangelo Ferrari

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"Caro ministro Maroni mi aiutiio non cerco vendetta, semmai giustizia"
Ero un allevatore di tori. Ero un ragazzo normale, con amicizie, una ragazza, passioni, sani valori. Ero soprattutto un grande tifoso del Brescia. Una persona normale, come tante, direbbe Lei.... Poi a Verona sono stato travolto da una carica di “alleggerimento” del reparto celere...
Ill.mo Ministro degli Interni

p.c. Presidente della Repubblica
p.c. Presidente del Consiglio
p.c. Ministro di Giustiziap.c. Sindaco di Brescia
p.c. Prefetto di Brescia
p.c. Questore di Brescia
p.c. Sindaco di Verona
p.c. giornali e tv

Scrivo questa lettera alla vigilia dell’anniversario di una data che mi ha cambiato la vita: il 24 settembre del 2005.
Mi presento: sono Paolo Scaroni, abito a Castenedolo, piccolo paese della provincia di Brescia.Ero un allevatore di tori.Ero un ragazzo normale, con amicizie, una ragazza, passioni, sani valori -anche sportivi- e la giusta curiosità. Facevo infatti molto sport e viaggiavo quando potevo.Ero soprattutto un grande tifoso del Brescia.Una persona normale, come tante, direbbe Lei.

Oggi non lo sono più (per la verità tifoso del Brescia lo sono rimasto, sebbene non possa più vivere la partita allo stadio com’ero solito fare: cantando, saltando, godendo oppure soffrendo).

Tutto è cambiato il 24 settembre del 2005, nella stazione di Porta Nuova a Verona.Quel giorno, alla pari di migliaia di tifosi bresciani -fra i quali molte famiglie e bambini- avevo deciso di seguire la Leonessa a Verona con le migliori intenzioni, per quella che si preannunciava una sfida decisiva per il nostro campionato di serie B. Finita la partita, siamo stati scortati in stazione dalla polizia senza nessun intoppo o tensione. Dopo essermi recato al bar sottostante la stazione, stavo tornando con molta serenità al treno riservato a noi tifosi portando dell’acqua al resto della compagnia (era stata una giornata molto calda ed eravamo quasi tutti disidratati). Tutti gli altri tifosi erano già pronti sui vagoni per fare velocemente ritorno a Brescia. Mancavano pochi minuti ed i binari della stazione erano completamente deserti. Cosa alquanto strana visto il periodo, l’orario e soprattutto la città in cui eravamo, centro nevralgico per il passaggio dei treni.
Improvvisamente, senza alcun preavviso o motivo apparente, sono stato travolto da una carica di “alleggerimento” del reparto celere in servizio quel giorno per mantenere l’ordine pubblico e picchiato a sangue, senza avere nemmeno la possibilità di ripararmi. Sottratto al pestaggio dagli amici (colpiti loro stessi dalla furia delle manganellate), sono entrato in coma nel giro di pochissimo e quasi morto.Dopo circa venti minuti dall’aver perso conoscenza sono stato caricato su un’ambulanza -osteggiata, più o meno velatamente, dallo stesso reparto che mi aveva aggredito- e trasportato all’ospedale di Borgo Trento a Verona. Lì sono stato operato d’urgenza. Lì sono stato salvato. Lì sono tornato dal coma dopo molte settimane. Lì ho passato alcuni mesi della mia nuova vita. Una vita d’inferno.Nel frattempo la mia famiglia, in uno stato d’animo che fatico ad immaginare, subiva pressioni e minacce affinché la mia vicenda mantenesse un basso profilo.Ai miei amici non andava certo meglio, nonostante tutti gli sforzi per far uscire la verità.Ovviamente, alcune cose di cui sopra le ho sapute molto tempo dopo la mia aggressione. Il resto l’ho scoperto grazie al lavoro del mio avvocato.Dalla ricostruzione dei fatti e tramite le tante testimonianze, emerge un quadro inquietante, quasi da non credere; ma proprio per questo da rendere pubblico.

In seguito alle gravissime lesioni subite, presso la Procura della Repubblica di Verona è iniziato un procedimento a carico di alcuni poliziotti e funzionari identificati quali autori delle lesioni da me subite. Nonostante il Giudice per le Indagini Preliminari abbia respinto due volte la richiesta d’archiviazione, il Pubblico Ministero non ha ancora esercitato l’azione penale contro gli indagati.Mi domando per quale ragione ciò avvenga e perché mi sia negata giustizia.Oggi, dopo avere perso quasi tutto, rimango perciò nell’attesa di un processo, nemmeno tanto scontato, considerati i precedenti ed i tentativi di screditarmi. Oltretutto i poliziotti erano tutti a volto coperto, quindi non identificabili (com’è possibile tutto questo?), sebbene a comandarli ci fosse una persona riconoscibilissima.Dopo le tante bugie e cattiverie uscite in modo strumentale sul mio conto a seguito della vicenda, aspetto soprattutto che mi venga restituita la dignità.
Ill.mo Ministro degli Interni, sebbene la mia vicenda non abbia destato lo stesso scalpore, ricorda un po’ le tragedie di Gabriele Sandri, di Carlo Giuliani, ed in particolare di Federico Aldrovandi (accaduta a poche ore di distanza dalla mia), con una piccola, grande differenza: io la mia storia la posso ancora raccontare, nonostante tutto.Le dinamiche delle vicende sopra citate forse non saranno identiche, ma la volontà di uccidere sì, è stata la medesima. Altrimenti non si spiega l’accanimento di queste persone nei miei confronti, soprattutto se si considera che non vi era una reale situazione di pericolo: era tutto tranquillo; ero caduto a terra; ero completamente inerme. Ma le manganellate, come descrive il referto medico, non si sono più fermate.Forse, ho pensato, oltre alla vita volevano togliermi anche l’anima.Per farla breve, in pochi secondi ho perso quasi tutto quello per cui avevo vissuto -per questo mi sento ogni giorno più vicino a Federico- e senza un motivo apparente. Sempre ovviamente che esista una giustificazione per scatenare tanta crudeltà ed efficienza.Le mie funzioni fisiche sono state ridotte notevolmente, e nonostante la lunga riabilitazione a cui mi sottopongo da anni con molta tenacia non avrò molti margini di miglioramento. Questo lo so quasi con certezza: l’unica cosa funzionante come prima nel mio corpo infatti è il cervello, attivo come non mai. Dopo quattro anni non ho ancora stabilito se questa sia stata una fortuna.Ho perso il lavoro, sebbene abbia un padre caparbio che insiste nel mandare avanti la mia ditta, sottraendo tempo e valore ai suoi impegni.Ho perso la ragazza.Ho perso il gusto del viaggiare (il più delle volte quelli che erano itinerari di piacere si sono trasformati in veri e propri calvari a causa delle mie condizioni fisiche), nonostante mi spinga ancora molto lontano.Ho perso soprattutto molte certezze, relative alla Libertà, al Rispetto, alla Dignità, alla Giustizia e soprattutto alla Sicurezza.Quella sicurezza che Lei invoca ogni giorno, e tenta d’imporre sommando nuove leggi e nuove norme a quelle già esistenti (fino a ieri molto efficaci, almeno per l’opinione pubblica).Peccato però che queste leggi non abbiano saputo difendere me, Federico, Carlo e Gabriele dagli eccessi di coloro che rappresentavano, in quel momento, le istituzioni.Ill.mo Ministro degli Interni, alcune cose mi martellano più di tutto: ogni giorno mi domando infatti cosa possa spingere degli uomini a tanto. Non ho la risposta.Ogni giorno mi domando se qualcuna di queste tragedie potesse essere evitata. La risposta è sempre quella: sì.A mio modesto parere, ciò che ha permesso a queste persone di liberare la parte peggiore di sé è stata la sicurezza di farla franca.Sembra un paradosso, ma in un Paese come il nostro in cui si parla tanto di “certezza della pena”, di “responsabilità” e di “omertà”, proprio coloro che dovrebbero dare l’esempio agiscono impuniti infrangendo ogni legge scritta e non, disonorano razionalmente la divisa e l’istituzione rappresentata, difendono chi fra loro sbaglia impunemente.
Ill.mo Ministro degli Interni, dopo tante elucubrazioni, sono giunto ad una conclusione: se queste persone fossero state immediatamente riconoscibili, responsabili perciò delle loro azioni, non si sarebbero comportate in quella maniera ed io non avrei perso tanto.
Le chiedo quindi: com’è possibile che in Italia i poliziotti non portino un segno di riconoscimento immediato come accade nella maggior parte delle Nazioni europee?

Ill.mo Ministro degli Interni, io non cerco vendetta, semmai Giustizia.Mi appello a Lei ed a tutte le persone di buon senso affinché questi uomini vengano fermati ed impossibilitati nello svolgere ancora il loro “dovere”.Chiedo quindi che si faccia il processo e nulla sia insabbiato.Cordiali saluti.

Paolo Scaroni, vittima di uno Stato distratto.


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