lunedì 22 marzo 2010

L'acqua non è business. A Roma sfilano in 200mila

«Padroni del mondo gavì tocà el fondo». Tra una testa composta da quattro camionette della Polizia, con trenta agenti in assetto anti sommossa e una decina in borgese, e una coda con la stessa quantità di Carabinieri, e di blindati, ieri a Roma hanno sfilato circa 200mila persone. Contro i padroni del mondo che, secondo un immenso striscione di un gruppo di veneti, hanno toccato il fondo, una manifestazione pacifica quanto imponente ha invaso la città per chiedere, come recitava lo slogan di testa del corteo, di «ripubblicizzare l’acqua e difendere i beni comuni». Ovvero, abolire quello che comunemente è chiamato il decreto Ronchi, una legge che, con poche norme, ha affidato la gestione del servizio idrico ai privati e regalato un business da 8 miliardi di euro a pochi gruppi industriali.

Contro i padroni del mondo c’erano in prima fila i sindaci: Napoli, Gubbio, Agliano, Castel Madama, Anghiari, Capannori, Modica, Grotte, Melilli, Bassiano e poi Misterbianco, Vittoria. Ognuno con il proprio gonfalone e la fascia tricolore a tracolla. Sotto piazza Venezia qualcuno di loro ha intonato «Bella ciao». A seguire i comitati territoriali. Piemontesi, veneti, umbri, marchigiani, abruzzesi, campani, molisani, calabresi, siciliani, laziali. In sostanza tutta l’Italia, che poi è fatta di molti piccoli, minuscoli, centri. Come quello di Nocera Umbra, arrivato a Roma per la difesa del Rio Fergia, un fiumiciattolo messo in pericolo dalla società Rocchetta e dai suoi pozzi da cinquecento metri di profondità. «Sporchi dentro e “puliti” fuori» era lo slogan del comitato attivo già nel 1993 e uno dei primi ad essere riconosciuti a livello istituzionale.
Ma di striscioni ce n’erano a centinaia. Ogni centro aveva il suo per la verità. Ed erano tanti. C’era quello di Gualdo Tadino, («A noi non la date a bere»), di Cuneo («Stisa dopo stisa la pera se sbrisa», più o meno: goccia dopo goccia si sbriciola la roccia), di Velletri («Acqua spa: scarsa, privata, avvelenata»), del piccolo comune lucchese di Capannori («Capannori vuol bere l’acqua del sindaco»), uno dei tanti di Roma («Vendesi acqua pubblica, rivolgersi a Alemagno»). E ancora, uno del comitato del Basso Livenza, in provincia di Venezia, («E io pago!»), un altro dell’Abruzzo Social Forum (Acqua, cielo, terra riprendiamoci il futuro»), uno del comitato lucchese («Acqua fuori dal mercato, senza se e senza Spa»). Tutti in fila, ordinati, festanti.

Se questo movimento avrà energie sufficienti lo si capirà comunque nei prossimi mesi. Il prossimo paso sarà la campagna per il referendum abrogativo. I tre quesiti saranno presentati in Cassazione il prossimo 31 marzo. Il 15 aprile partirà la raccolta delle firme. Ne servono 700mila. Due i comitati impegnati: il primo è quello delle associazioni, comprese le diocesi; il secondo formato dai partiti politici. Finora hanno aderito formalmente Sinistra Ecologia e Libertà, il movimento di Nichi Vendola, la Federazione della Sinistra e l’Italia dei Valori. Il Pd non si è ancora pronunciato. La raccolta di firme dovrebbe durare tre mesi. Fino a luglio. Questo per permettere il loro deposito a settembre.
E se contro i padroni del mondo dovesse andar male, hanno scritto una decina di ragazzi romani, «...almeno regalatece er vino».

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