martedì 9 marzo 2010

Approvato il Collegato Lavoro: affondati diritti e art.18

L'approvazione definitiva del così detto collegato lavoro (disegno di legge 1167-b/Senato), fortemente sponsorizzato dal ministro del lavoro, Sacconi, rappresenta, nella formula più subdola ed ipocrita, una sorta di de profundis nei confronti dell'art. 18.

Questa volta, a differenza che nel 2002, l'attacco all'art. 18 non è frontale, piuttosto il governo, con il sostegno della Confindustria, di Cisl-Uil-Ugl, cerca di aggirare il problema, svuotando di efficacia l'art. 18 nella sua funzione di tutela e garanzia per il lavoratore.
L'arma utilizzata è un disegno di legge omnibus, che racchiude e norma questioni tra loro molto diverse, ma che cela una serie di clausole particolarmente nefande per i lavoratori.

Il collegato lavoro, muovendosi nella scia della mai sufficientemente deprecata legge 30 (la così detta Legge Biagi, in realtà la L. 276/2003), nei suoi articoli 30, 31 e 32, istituisce, al momento della stipulazione del contratto di lavoro, la figura dell'arbitro in sostituzione del giudice del tribunale del lavoro, cui il lavoratore può ricorrere, in caso di controversie con il padrone.

La perfida astuzia della nuova legge garantisce al lavoratore di scegliere tra arbitrato e procedimento giudiziario classico. Sacconi, Bombassei, Bonanni e Angeletti ci tengono a confermare che l'art. 18 è salvo, essendo l'arbitrato facoltativo.
Non bisogna invece essere dei geni per capire che il lavoratore, già di per sé soggetto più debole del datore di lavoro, dovendo scegliere (scelta tra l'altro irrevocabile) all'atto dell'assunzione, cioè nel momento in cui il suo potere di contrattazione è pressochè uguale a zero (e sempre più lo sarà in questi tempi di crisi), tra l'arbitrato e l'iter giudiziario presso il tribunale del lavoro, molto difficilmente sceglierà liberamente, finendo col subire il formidabile ricatto che con l'arbitrato il padrone può esercitare nei suoi confronti.
Ma purtroppo i guai non vengono mai da soli, nel senso che, all'interno del collegato lavoro, ci sono ulteriori “perle”, pesanti come macigni, come ad es., nell'art. 34, lo stravolgimento della tempistica per adire la strada del processo del lavoro; attualmente, in caso di licenziamento, il lavoratore ha 60 giorni di tempo per comunicare con una semplice lettera raccomandata al datore di lavoro la sua volontà di opposizione al ricorso, e poi 5 anni di tempo per organizzare la propria difesa, depositare le motivazioni, etc, con la nuova norma invece, se il ricorso non lo presenti entro 180 giorni dall'invio della raccomandata, il processo è automaticamente annullato. Anche il risarcimento monetario che poteva comprendere un numero di mensilità che copriva tutto l'arco di tempo intercorrente tra il licenziamento e l'emissione della sentenza viene nel testo del collegato lavoro rigidamente compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità.

Ma c'è di più nell'art. 50 (ex art. 52), nel caso di lavoratori a progetto che abbiano fatto ricorso giudiziario per vedere riconosciuto il carattere subordinato del loro rapporto di lavoro e abbiano già vinto in vari gradi di giudizio, ma la cui sentenza non è ancora passata in giudicato, praticamente si azzera tutto e si chiude definitivamente la partita esclusivamente con un risarcimento monetario compreso tra 2,5 e 6 mensilità. Questa è una norma ad azienda, in questo caso si tratta di Atesia, in cui 50 lavoratori non avevano accettato l'accordo bidone tra Tripi e Cgil-Cisl-Uil e avevano avuto riconosciuti in due diversi gradi di giudizio tutti i diritti pregressi, che così passano da precari a precari in eterno o licenziati.

Ed infine, autentica schifezza, l'art. 48 riconosce la possibilità per i ragazzi di assolvere l'ultimo anno di obbligo scolastico (dai 15 ai 16 anni), all'interno dell'azienda in qualità di apprendisti. Evidentemente la precarietà eterna non può che andare d'amore e d'accordo con lo sfruttamento del lavoro minorile, sancendo per l'apprendistato la liceità dell'evasione dell'obbligo scolastico.

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