martedì 23 marzo 2010

Viterbo: 25enne muore in reparto detenuti Ospedale "Belcolle"

Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "la storia clinica di quest’uomo indicava chiaramente problemi che non potevano essere risolti solo dal carcere".

È stato trovato morto sabato mattina, intorno alle 5.30, nel suo letto del reparto per detenuti dell’Ospedale "Belcolle" di Viterbo probabilmente per arresto cardiaco. Sarà però l’autopsia a stabilire con certezza le cause della morte di un detenuto campano di 25 anni, Agostino G..
La notizia del decesso è stata data dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. È la prima vittima registrata nella struttura protetta del "Belcolle" dalla sua inaugurazione, 4 anni fa.

A quanto risulta ai collaboratori del Garante, l’uomo era in carcere per scontare un cumulo di pene legate alla droga. Tossico già dall’età di 12 anni Agostino - persona giudicata difficile e soggetta ad atti di autolesionismo - era stato trasferito da Rebibbia Nuovo Complesso a Cassino e da qui, il 10 marzo, al "Mammagialla" di Viterbo.
Il 17 marzo era stato ricoverato in coma al "Belcolle". Ieri pomeriggio, uscito dal coma, era stato trasferito dalla rianimazione al reparto per detenuti dell’ospedale viterbese. Chi lo ha visto ha raccontato che era pienamente cosciente, che aveva sostenuto i colloqui con i medici e lo psicologo e aveva chiesto di parlare con la sorella, che proprio per questo stamattina era partita da Caserta.

Questa notte Agostino ha risposto all’appello delle 3, poi alle 5.30 è stato trovato morto. "Io non so se questa tragedia potesse essere evitata - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - è un dato di fatto, tuttavia, che la storia personale e clinica di questo ragazzo indicavano una serie di patologie che non potevano essere curate esclusivamente da una reclusione di tipo tradizionale. In una situazione di emergenza come quella che stanno vivendo in questo momento le carceri italiane, è evidente che occorrerebbe ripensare a misure alternative alla detenzione per i detenuti che si trovano in condizioni fisiche e psichiche drammatiche".

Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio

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Giustizia: dalla famiglia di Uva esposto per una nuova inchiesta

La Stampa
Io voglio solo sapere come è morto mio fratello. È due anni che lo chiedo. Non smetterò fino a quando non avrò avuto risposte convincenti". Lucia Uva, nella casa di Brebbia, accarezza la foto del fratello Giuseppe morto a 43 anni senza un perché, dopo essere stato nella caserma dei carabinieri di Varese la notte de] 14 giugno 2008. "Mio fratello era solo ubriaco. Un amico che era con lui l’ha sentito gridare: "Basta, basta, basta...". Giuseppe non si può essere provocato quei segni da solo. E perché i magistrati non hanno mai voluto sentire il suo amico? A tutte queste domande, voglio una risposta", si sfoga Lucia, sicura che il fratello sia stato vittima di un pestaggio senza ragioni.

Ragionevolmente sicura, guardando le carte di un’inchiesta forse troppo frettolosa, con più di una lacuna, con troppi punti oscuri. L’autopsia firmata dal medico incaricato dalla procura di Varese è senza punti interrogativi: "È escluso che il soggetto abbia subito sollecitazioni traumatiche". Il medico consulente della famiglia Uva di dubbi ne ha pure troppi: "La documentazione fotografica evidenzia ecchimosi e tumefazioni multiple sospette". Sul corpo di Giuseppe ci sono segni ovunque: in faccia, sul tronco, sulle braccia, sulle mani, perfino sui testicoli. I pantaloni erano macchiati di sangue come le scarpe. Gli slip che indossava quella notte sono spariti. "C’è più di un elemento per far pensare che sia necessario riaprire le indagini per accertare la verità.
Sto preparando un nuovo esposto da presentare in procura. Dovranno dirci come è stato ammazzato Giuseppe", spiega l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, chiamato dalla famiglia negli ultimi giorni. Il legale - che si è già occupato dei casi di Federico Aldrovandi a Ferrara e di Stefano Cucchi a Roma - sospetta che i carabinieri possano avere avuto la mano pesante anche quella notte con Giuseppe, fermato per strada per qualche schiamazzo, trascinato in caserma con l’amico e morto in ospedale molte ore dopo.
Il fascicolo della procura per ora è contro ignoti. Sotto inchiesta ci sono solo due medici dell’ospedale di Varese, sospettati di avere dato a Giuseppe farmaci non compatibili con la sua condizione di ubriaco.

"Non mi basta che accusino solo i medici, sono un paravento per nascondere quello che è successo in caserma": immagina complotti Lucia Uva. E colpe gravi, negligenze, trascuratezze di un’inchiesta magari insabbiata con troppa leggerezza per coprire il comportamento di qualche carabiniere che non si sa perché quella sera perse la testa. "Chiamai il 118 con il mio cellulare ma impedirono ai sanitari di entrare in caserma. Sentivo Giuseppe urlare, urlavo anch’io ai carabinieri. Ma Beppe non l’ho più rivisto vivo. Una volta mi disse di aver avuto una relazione con la moglie di un carabiniere. Non vorrei che l’avessero picchiato per vendetta", denuncia Alberto Biggiogero, finito anche lui in caserma con l’amico per schiamazzi, testimone prezioso di quello che sarebbe successo quella sera e inspiegabilmente mai ascoltato dai magistrati.

Per l’avvocato Anselmo c’è più di un motivo per indagare a fondo: "Dicono che è un caso di autolesionismo? Sono comunque colpevoli di non averlo impedito. Ma basta guardare quelle foto e le carte per capire che c’è altro sotto...". La sua è la convinzione del legale che ne ha viste troppe. Lucia Uva ha la sicurezza della sorella, sa che Giuseppe non si sarebbe mai fatto male da solo: "Se la legge è uguale per tutti deve valere anche per chi ha il compito di farla rispettare".




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