martedì 20 aprile 2010

Giustizia: ruba uno zaino, si suicida dopo la condanna di 5 anni

www.innocentievasioni.net

Giovanni Lorusso, 41 anni, viene trovato senza vita nel carcere di Palmi il 17 novembre 2009. L’ipotesi accreditata, al momento, è il suicidio. Un suicidio annunciato (non era la prima volta che provava a togliersi la vita) anche se, a noi, verrebbe da dire un suicidio indotto. Indotto da una serie di drammatiche circostanze che evidenziano come la storia di Giovanni Lorusso sia segnata da tutte le iniquità che affliggono il nostro sistema carcerario. Lorusso aveva un passato di piccola criminalità e devianza, insieme a problemi di tossicodipendenza.
Questa volta era finito in carcere per il furto di uno zaino su una spiaggia di Rimini. Per questo reato, su cui ha pesato come un macigno la condizione di recidivo, è stato condannato all’enormità di 4 anni e 5 mesi di reclusione. L’ultima carcerazione di Lorusso ha subito l’iter che la maggior parte dei detenuti si trova ad affrontare: il continuo trasferimento da un carcere all’altro, in luoghi sempre più lontani da quelli di residenza. Prima a Rimini, poi ad Ariano Irpino e, infine, a Palmi, in Calabria.

La sorella di Giovanni, Maddalena, abita a Milano: Lorusso ha più volte chiesto di essere trasferito in Lombardia, perché Maddalena era l’unico affetto rimastogli e la sola persona che continuava ad occuparsi di lui. Nonostante questo suo desiderio fosse rimasto disatteso, Lorusso si aspettava da lì a pochi giorni la concessione della detenzione domiciliare presso la comunità terapeutica Il Gabbiano. Effettivamente a questa richiesta il 16 novembre era stata data risposta affermativa, ma - per problemi burocratici, amministrativi, di incomunicabilità tra uffici? - non gli era stata notificata.
È morto così, il giorno 17, nella solitudine e nella disperazione, forse convinto di dover rimanere in quel carcere per chissà quanto tempo ancora. La sorella, tuttavia, non riesce a credere nel suicidio. Lorusso, il 3 novembre, le aveva scritto una lettera: denunciava di essere in isolamento da più di quindici giorni, confessava di avere provato a togliersi la vita senza avere avuto il coraggio di andare fino in fondo, raccontava di patire il freddo a causa di una finestra rotta, diceva che le ferite alla mano non se le era procurate dando un pugno contro il muro ma che erano il risultato di colpi inferti da agenti.

Ne aveva parlato con il suo avvocato, Martina Montanari, e le aveva chiesto di denunciare tanto i poliziotti quanto il direttore del carcere. Ad Ariano Irpino lui non ci voleva più stare e, anziché essere avvicinato a casa (come da suo diritto), viene allontanato ancora di più e mandato in Calabria. Di questo ennesimo spostamento non è stata data comunicazione né alla famiglia né all’avvocato e a tutt’oggi ancora non se ne conoscono i motivi.
Oltretutto Lorusso era in attesa della risposta alla sua richiesta di scarcerazione. Qual è stato, quindi, il senso di quell’ulteriore trasferimento? Forse piegare fisicamente e mentalmente una persona che aveva già dato segni di fragilità? Non è il solo mistero: i suoi effetti personali non sono mai stati riconsegnati alla famiglia e soprattutto restano, non spiegati in alcun modo, quei segni sul suo corpo, quegli ematomi e quelle lesioni che la sorella ha potuto nitidamente vedere durante il riconoscimento.
E resta un dato comunque atroce: il sistema penitenziario sembra fatto di atti e omissioni, pressioni e carenze, meccanismi di disciplina e intimidazione, procedure di spersonalizzazione e mortificazione, tali da determinare - in un numero crescente di casi - la pulsione all’autolesionismo.

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