martedì 6 aprile 2010

Teramo, la paura dietro le sbarre

La notizia aveva fatto il giro di tutti i quotidiani suscitando sconcerto. Persino il Ministro della Giustizia era dovuto intervenire di fronte a tanto clamore. Oggi i quotidiani locali raccontano la fine di una vicenda giudiziaria impasticciata di omertà. Il caso è quello del carcere di Teramo e dell’accusa di pestaggi, lesioni e omissioni per tre agenti penitenziari e il loro Comandante Giuseppe Luzi. Quello che dava indicazioni su dove “massacrare” un detenuto. “Meglio al piano di sotto”, diceva lui. L’audio raccontava poi del testimone scomodo, del negro che aveva visto tutto. Una confessione impeccabile. Le violenze ai danni di un detenuto, l’ansia per la rivolta che sembrava bollire nelle celle e la sensazione che la pratica ordinaria di quel luogo di pena fosse fatta di ordinari riti di violenza.

Il testimone Uzoma Emeka, soltanto un mese dopo, era morto per un tumore al cervello mai diagnosticato. Un decesso un po’ troppo repentino, il segno dell’abbandono totale in cui versano le condizioni dei detenuti, e senza dubbio una morte comoda. Le indagini subito dopo sono andate avanti a singhiozzo, fino ad arrivare ad oggi in cui viene avanzata la richiesta di archiviazione. Il magistrato ha segnalato come principale impedimento il codice di omertà che lega i detenuti e che non consente di trarre prove ed elementi sul caso né di avere dichiarazioni su cosa accade nelle celle del carcere. Ma l’omertà andrebbe chiamata per nome. E si chiama terrore.

Quello del detenuto vittima delle violenze, l’unico indagato rimasto, che ora si affanna a negare tutto. Quello che forse deve aver avuto il testimone morto all’improvviso. Così gli agenti e il loro comandante potrebbero cavarsela non negando quelle conversazioni, inconfutabili del resto, ma ricorrendo alla tesi bizzarra del “contesto”. Sarebbero stati quei giorni di tensione nel carcere e il timore di una rivolta a causare quegli sfoghi verbali, ma nulla sarebbe accaduto davvero. O meglio: nulla può essere più dimostrato. Le accuse si sbriciolano, anche se emergono chiare le versioni contraddittorie degli indagati e ci sono agli atti le prime timide dichiarazioni. Ma tutto sarà archiviato, la giustizia bloccata. Sono proprio i detenuti a scagionare i loro carnefici. Per paura.

Il caso di Teramo ha lo stesso sapore di altre storie rimaste ancora senza colpevoli. Solo qualche giorno fa, il caso di Giuseppe Uva, condannato a morte in una caserma dei Carabinieri; o le indagini ancora in piedi per Stefano Cucchi, ucciso a metà dalle botte e a metà dalle omissioni dei medici. Per non dire della pena ridicola per i poliziotti responsabili della morte del giovanissimo Federico Aldovrandi. E chissà quanti altri insabbiati. Chissà quanti stranieri stipati nelle nostre carceri di cui nessuno sa ne ha memoria, per cui nessuno avrà strumenti mai per chiederne giustizia.

Teramo disegna un macabro ritratto delle nostre forze d’ordine e soprattutto la consapevolezza che dietro le sbarre ci sia la terra di nessuno. Luogo senza Stato, senza legge. Uno spazio vuoto dato in pasto alla forza. Proprio in occasione dei lavori del ventunesimo Consiglio nazionale del sindacato autonomo Polizia Penitenziaria si è parlato dei problemi serissimi in cui versa la popolazione carceraria nel nostro Paese e, soprattutto, della necessità di ristabilire una diversa e più efficace politica della pena che sia fatta il più possibile, e proporzionalmente ai reati commessi, di misure alternative e di reali proposte rieducative. Un aspetto della detenzione che non importa alla pancia di tanti italiani.

Se tutto questo ha solo qualche lontana occasione di essere credibile, si deve ripartire dall’elemento fondamentale. Riportare la legge dietro le sbarre. Ristabilire la giustizia e almeno i diritti inalienabili di ciascun individuo. Punire gli assassini anche quando sono poliziotti o carabinieri. Per raccontare se questa montagna di omertà è il nemico o il pane della nostra storia. E se quello che accade dietro le sbarre non sia soltanto la replicazione più esasperata di una stessa diffusa democrazia di carta.

Rosa Ana de Santis

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