lunedì 1 marzo 2010

Aquila, rivolta delle carriole contro le macerie

Gli occhi piangono, le labbra sorridono quando finalmente, alle 11 e 45 la pressione del corteo costringe ad aprire le transenne e gli aquilani sciamano dentro piazza Palazzo, al centro della quale, le macerie formano il tumulo in cui sono sepolte le speranze della città.

«Finalmente ci siamo svegliati»: la zona rossa è violata con un gesto liberatorio di massa. Donne e bambini, carriole e passeggini, anziani con le piccozze, ragazze e ragazzi con le tute da imbianchini, guanti da lavoro, secchi di metallo e di plastica, signore e signori con gli abiti della domenica. Gente di ogni orientamento politico: «Io sarei di centro destra – sento raccontare – ma far sentire la nostra voce è giusto». Le forze dell’ordine hanno resistito per un po.’ Ma non avrebbe avuto alcun senso contrastare con la forza quella spinta pacifica, atto d’amore per la città. Mattia Lolli e Alberto Puliafito si abbracciano con i lucciconi agli occhi: Mattia è un ragazzo aquilano, impegnato nel centro sociale 3.32. Alberto, invece, viene da Torino, ma è all’Aquila da 8 mesi per documentare la condizione umana del dopo-terremoto. Spiega la sua commozione: «Finalmente gli aquilani reagiscono e esprimono quello che vogliono, fino adesso sono rimasti tramortiti perché qui c’è un lutto non elaborato. Nelle tendopoli nessuno si è occupato di questo».

In base agli accordi con la questura, i manifestanti avrebbero dovuto fermarsi sul corso, era consentito l’ingresso nella zona rossa solo a tre gruppi di 15 persone accompagnati dai tecnici, perché - aveva spiegato il sindaco Massimo Cialente - «tutte le piazze della città sono a rischio». Cioè – commenta una signora – «Esattamente il contrario del messaggio che è passato nell’informazione Tv, secondo cui i problemi del terremoto sono risolti». Il corteo era partito poco prima per percorrere il tratto breve del Corso su cui è consentito camminare, lo slogan : «Fuori gli sciacalli da l’Aquila». C’è la corsa ai detriti che da dieci mesi occupano la piazza antica, comincia la raccolta differenziata, perché, proclama Sara Vegni al megafono, «noi non siamo abusivi»: i coppi vengono separati dal cemento, le pietre dal ferro e dal legno, plastica e rifiuti finiscono in altri recipienti. Si formano due lunghe catene umane che arrivano fino al Duomo dove sono organizzati i cassonetti: da un lato passano di mano in mano i secchi vuoti, dall’altra quelli pieni di terra. Al centro camminano le carriole accolte dagli applausi. Fra i primi ad entrare nella zona rossa c’era Federica Beniamino che aveva un negozio di abbigliamento nel centro storico e ha perso tutta la merce quando la ditta incaricata della demolizione è entrata senza avvertirla e ha sepolto tutto. Gabriele Fiorenza ha scelto di esporre sotto il municipio il suo cartello: «Mangio, dormo ma non vivo, rivoglio la mia casa, la mia città» e in dialetto: «l’Aquila bella me». Un altro cartello: 500 milioni per il G8, 2 milioni 700mila per il progetto Case, neanche 1000 euro per le case vere».

A raccogliere le macerie ci sono anche Antonio Perrotti, architetto, funzionario della Regione, animatore del «Comitatus Aquilanus» e Francesco Salvati di Legambiente. Scoppia la polemica perché Perrotti accusa: «Siete stati 10 mesi nella Dicomac (la struttura della Protezione civile, Ndr). Vi svegliate solo ora?».

Ai lati del corteo sorridono i vigili del fuoco: «Io sono un terremotato dell’Irpinia, si figuri se non li capisco» - commenta uno. E l’altro, che viene dall’Emilia Romagna: «Sono contento di vedere gli aquilani qui, sapesse come è brutto lavorare nella città deserta». Enzo Bianchi è del «comitato cittadino per i cittadini» - racconta della riunione che si è tenuta due sere fa, a cui hanno partecipato tutti i comitati, con gente di tutte le età: «Eravamo ancora titubanti, ancora in ostaggio, come in ostaggio è la nostra città. La Costituzione prevede sussidiarietà e invece, qui, le realtà locali non hanno contato nulla. Ci è stato tutto regalato. Ma nei regali c’è l’altra faccia della medaglia». L’altra faccia della medaglia è che «Berlusconi, finiti i costosi spot, non ha più vantaggio ad occuparsi dell’Aquila. La mia casa ha pochi danni, ho iniziato a giugno ad occuparmene, ma ancora non siamo riusciti ad avviare i lavori». «Dalle tende gli aquilani sono andati agli alberghi, perché mancano ancora all’appello 40mila aquilani sparsi nella regione e, se l’economia non riprende, non torneranno più». L’incognita dell’economia rende molto pessimista Francesco Nurzia 34 anni, che sta alla cassa del celebre caffè: «Credevo in Berlusconi ora non credo più in nessuno. Lui pensava a coprire i problemi delle veline. 200 milioni spesi per il G8: cosa si sarebbe potuto fare a l’Aquila con 200 milioni?». Nurzia presenta alla cronista de l’Unità un comunista doc, Alberto Aleandri: «Titolare della Aleandri bricolage,140 dipendenti. E’ stata la prima azienda a riaprire, ho riassunto tutti, nessuno è in cassa integrazione».

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