venerdì 29 gennaio 2010

Giustizia: assistenza psicologica in carcere e suicidio di Ivano

Il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ha provveduto ad istituire delle Unità di Ascolto per prevenire i suicidi assegnando tale funzione alla Polizia Penitenziaria. Ritengo che la formazione di questo personale, in particolare quella psicologica, sia fondamentale per lo svolgimento del loro lavoro, tuttavia la cosa diviene anomala laddove si affida un compito così specialistico esclusivamente a professionalità che hanno funzioni di altra natura, senza tenere conto delle professionalità specifiche presenti, peraltro largamente sottoutilizzate.

I numerosi episodi di suicidio dall’inizio di quest’anno ed in particolare l’ultimo avvenuti nell’istituto di Spoleto, quasi sotto i miei occhi, hanno sollecitato il mio senso di impotenza ed insieme la necessità di parlare dell’assistenza psicologica ai detenuti di cui, nei limiti di quanto mi è possibile data la grave carenza di questo servizio, mi occupo come psicologo da 28 anni. Assistenza psicologica, divenuta oggi ancor più necessaria, data la situazione di disagio estremo che inevitabilmente si riflette anche su tutti gli operatori che a diverso titolo lavorano in questo "mondo a parte".
Il sovraffollamento di cui si parla tanto è solo la punta dell’ iceberg di un sistema penale in cui vanno ricercate le cause dell’emergenza:
- l’uso facile ed indiscriminato del carcere per affrontare problemi di natura sociale, spesso di disagio psichico (come il caso del suicidio avvenuto a Spoleto);
- la chiusura delle prospettive di vita - sia durante la detenzione che dopo - determinata dalle modifiche apportate alla riforma del 1975 e alla Legge Gozzini che ne hanno capovolto la ratio;
- la presenza massiccia di persone in attesa di giudizio, (il 50% della popolazione detenuta, di cui il 40% viene poi assolta), che si trovano a vivere una condizione in cui mancano, non solo quegli stimoli alla crescita personale (il cosiddetto "Trattamento") che dovrebbero restituire alla società persone consapevoli delle ragioni del danno arrecato e garantire alla collettività la correttezza dei propri comportamenti, ma anche i requisiti essenziali di vivibilità (spazi, generi di prima necessità, servizi di assistenza anche sanitaria;)
- l’inasprimento dei regimi detentivi (non solo il 41 bis per i boss, ma anche l’Alta sicurezza, pene accessorie quali isolamento diurno, 14 bis etc.) che prevedono deprivazione di stimoli aggiuntive allo stato di detenzione;
- il Fine Pena Mai, ovvero quelle forme di ergastolo senza possibilità di avere benefici, né a media né a lunga scadenza.
Date queste premesse, il disagio psichico ed i suicidi che ne sono la più drammatica espressione, sono destinati inevitabilmente ad aumentare, a superare il triste primato mai raggiunto con l’anno 2009.

Ma torniamo all’ultimo suicidio. Come forse ricorderà lavoro a Spoleto e proprio quel giorno, mercoledì 20 purtroppo ero lì, presente al suicidio di Ivano Volpi. Ivano era stato arrestato sabato 16, proveniente dalla libertà per un’aggressione seguita a un oltraggio a pubblico ufficiale allorquando, chiamate sul posto, sono intervenute le forze dell’ordine. Era già stato detenuto a Spoleto per qualche mese ed era uscito a settembre, per comportamenti di violenza analoghi, legati al suo stato di tossicodipendenza, prevalentemente da alcool (ma non solo). In passato aveva fatto percorsi terapeutici presso Comunità ed anche stavolta, nonostante la sua titubanza (affermava di preferire il carcere alla comunità) era in procinto di tornarci.

Ed era questo il motivo per cui quel giorno si trovava in infermeria: infatti, dopo il colloquio con il suo avvocato che gli aveva fatto firmare la richiesta per il programma in comunità, era stato appoggiato in una stanza dove attendeva di essere chiamato dal medico che avrebbe dovuto controfirmare la richiesta di cui sopra.
Nell’attesa, il mio collega che lo aveva seguito nella precedente detenzione, avendo saputo che lui era lì, ha chiesto all’agente in servizio di poterlo vedere. È andando a prenderlo per portarlo a colloquio con lo psicologo che ci si è accorti della sua morte: si era tolto il maglione con cui aveva fatto un cappio e, dopo essere salito su una lettiga, si era lanciato giù. Lasciando davanti a sé la richiesta firmata per la comunità. Nonostante i tempestivi soccorsi da parte della Polizia Penitenziaria e dei medici, non c’è stato nulla da fare. È stato un evento repentino ed in certa misura imprevedibile, non imputabile certamente a negligenze del personale che era presente. Il carcere stesso ha inciso solo in quanto è stato l’ennesimo rifiuto e l’ennesimo stigma, a fronte di comportamenti aggressivi, espressione di un disagio e di una richiesta di aiuto che avrebbe richiesto risposte basate sulla cura e non sulla punizione.

Certamente con il mio collega ci siamo chiesti se il gesto di Ivano si sarebbe potuto prevenire se ci fosse stato almeno un servizio di assistenza psicologica che avesse consentito ad uno di noi di vederlo, di parlarci. Il confine tra il vivere e il morire, in circostanze così particolari a volte è così sottile, che anche la parola può divenire importante. Forse sarebbe accaduto lo stesso, non lo sappiamo e non lo sapremo. Ciò che sappiamo, ciò che è certo è che, il giorno in cui lui è entrato: sabato, e poi domenica e poi lunedì e poi martedì, nessuno di noi lo ha potuto vedere perché abbiamo a disposizione 34 ore al mese ciascuno e quindi la nostra presenza in istituto è davvero scarsa. Quindi di servizio di primo ingresso, non se ne parla proprio. E quando finalmente Ivano stava per essere ascoltato, era troppo tardi. In Italia ci sono 380 psicologi che lavorano in modo precario da 35 anni, malpagati e per una manciata di ore (in media 20 al mese per ciascuno, che equivalgono a tre ore l’anno per detenuto). Per mancanza di fondi.
Nonostante la presenza di personale da anni precario, qualche anno fa il Ministero della Giustizia ha, inspiegabilmente, bandito un concorso, che è stato vinto da 39 psicologi, i quali non sono stati assunti, sempre per mancanza di fondi.

Questo ha suscitato una specie di guerra tra disperati: i vincitori di concorso chiedono che i fondi che sono stati finora destinati ai 380 vengano utilizzati per la loro assunzione, chi lavorava già difende il suo lavoro, anche se precario, malpagato e insufficiente, ma anche la professionalità e l’esperienza acquisita, che vorrebbe continuare a mettere a disposizione dei detenuti per garantire qualità e continuità nell’assistenza. Sperando che un giorno ci si ponga davvero il problema della prevenzione e tutela della salute psichica dei detenuti.
Intanto continua questa inutile guerra tra chi pensa che il diritto a mantenere il lavoro sia cosa di poca importanza di fronte al (giusto ndr) diritto ad essere assunti e chi, avendo conoscenza diretta della drammatica realtà di cui si parla, è consapevole che l’assunzione di 39 psicologi in tutta Italia non possa risolvere l’assistenza psicologica ai detenuti. E i suicidi continuano a verificarsi.

Credo di rappresentare il pensiero di molti dei miei colleghi dicendo che se c’è una battaglia da fare, non è certo per vincere su altri colleghi ma, come abbiamo inutilmente proposto, per un obiettivo comune che, oltre al diritto al lavoro non può non estendersi alla necessità che avvertiamo, come persone, come professionisti e come cittadini di un paese civile di istituire un Servizio di Psicologia Penitenziaria che possa contribuire a contenere il disagio psichico e le morti in carcere.

Paola Giannelli
Segretario Nazionale Società Italiana Psicologia Penitenziaria

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