giovedì 28 gennaio 2010

Parla la mamma di Valerio Verbano


Ha voluto scrivere questo libro perchè a 86 anni spera ancora, dopo 30 anni, che l’assassino venga da lei a dirle la verità, a spiegarle perchè quel 22 febbraio 1980 ha sparato nella schiena a suo figlio Valerio Verbano lasciandolo agonizzante là, sul divano marrone del salotto di casa, sotto gli occhi agghiacciati di lei e suo marito. E adesso sta aspettando Carla Verbano, come non fa altro da anni, mentre “Sia folgorante la fine” che ha appena pubblicato per Rizzoli insieme al giornalista del “Corriere della sera” Alessandro Capponi prende la sua strada: qualcuno che vuole togliersi un peso dalla coscienza, che dopo tanti anni ha voglia e coraggio di parlare, chissà.

Non si dà pace Carla, una vispissima signora che a 83 anni ha fatto un corso di informatica, oggi naviga su Fb e porta avanti il blog intitolato a Valerio (www.valerioverbano.it) : ancora non si perdona di esser stata lei ad aprire la porta di casa agli assassini del figlio. Ma è un omicidio anomalo, quello di Valerio. Solo tra il 1978 e il 1979, come scrive lei in questo documentatissimo libro che ricostruisce la vicenda, «tra Montesacro e Talenti ci sono stati 42 attentati dinamitardi a edifici, 87 aggressioni, 12 incendi ad automobili o altri mezzi di trasporto». Ma «quello che rende il caso di Valerio unico in questi anni di ammazzamenti e sparatorie», continua Carla, è che VALERIO VENGONO A UCCIDERLO A CASA SUA», in via Montebianco, a Talenti, Roma Sud. C’è un unico precedente: il militante di Lotta Continua Roberto Ugolinelli nel 1979 viene ferito alle gambe in casa sua dopo aver aperto la porta agli aggressori, ma si salva. Per il resto, militanti di destra o di sinistra in quegli anni vengono aggrediti in strade, piazze, sezioni, scuole, ma mai in abitazioni private.

Nel 1980 i Verbano- papà Sardo iscritto a Pci e Cgil, impiegato al ministero degli Interni, mamma Carla infermiera e casalinga e Valerio, liceo Archimede e collettivo autonomo di Valmelaina- vivono a Roma in un appartamento al quarto piano a via Montebianco 114, un palazzo che, come altri in quella zona, è di proprietà del Ministero degli Interni. È qui che quel 22 febbraio alle 12.30 i genitori aspettano Valerio per il pranzo. Suona il campanello: «Siamo amici di Valerio, ci faccia entrare ad aspettarlo, siamo stanchi»: basta questo e Carla- cuore di mamma apre la porta, la loro è una “casa aperta” come si diceva in quegli anni, genitori di sinistra che non vedono come un affronto personale che gli amici dei figli frequentino la casa.

Irrompono in tre con le pistole, colpiscono Carla e Sardo e li legano e imbavagliano di là, nella loro camera da letto. Hanno il passamontagna calato: uno li tiene a bada con la pistola, un altro rovista per tutto il tempo nella camera di Valerio, un terzo lo aspetta appostato nell’ingresso. Quando il ragazzo arriva i genitori sentono un trambusto enorme, rumori di lotta e poi gli spari. Quando riescono a liberarsi e corrono in salotto Valerio sta spirando. Per questo assassinio non ha pagato nessuno: l’inchiesta è stata chiusa nel 1989, i quattro missini imputati prosciolti.
Adesso di nuovo c’è questo libro, bellissimo e che si legge in un fiato. La narrazione è tutta spezzettata, a singhiozzo, si sente che Carla Verbano ancora non riesce facilmente a raccontare di quel giorno e divaga, la storia dell’omicidio si intreccia coi ricordi di lei, giovane ragazza degli anni Cinquanta, della sua lovestory con Sardo…. Ma veniamo al punto.
Carla, nel libro lei scrive che, quel giorno di febbraio, uno dei tre terroristi «prima si è abbassato il passamontagna e poi mi ha colpito», e che «questo ragazzo potrei ancora identificarlo». Ma durante le indagini le avranno sottoposto miliardi di fotografie…

«Io ho visto un flash rapidissimo: alto, capelli lunghi e biondi, ricci. Non abbiamo trovato nessuno fatto così. Dai due identikit realizzati all’inizio delle indagini potevano essere Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (capi del Nar, n.d.r.). Mio marito, che ora è morto, era sicuro fossero loro gli assassini. Io li ho invitati a casa mia, loro sono venuti e hanno negato, ed io adesso ci credo: in fondo si sono accollati tanti omicidi, perchè dovrebbero mentire su Valerio? Secondo me, comunque, oggi si potrebbero ripescare questi identikit e invecchiarli al computer per vedere come gli assassini, se sono ancora vivi, potrebbero essere diventati. E invece, niente. L’anno scorso ho chiesto che si facesse la prova del Dna – un tempo la tecnologia non lo consentiva – sul cappellino e il passamontagna che Valerio nel conflitto era riuscito a togliere agli aggressori e che erano rimasti a terra, in casa nostra (oltre a una pistola e un guinzaglio che si erano portati dietro, forse per sfregio n.d.r.). Ebbene, la Digos mi ha risposto che i reperti sono stati bruciati. Ma si possono bruciare i reperti di un caso che non si può definire ancora chiuso perchè c’è un omicidio non risolto?»

Torniamo al libro. Lei scrive che tutto cominciò prima della morte di Valerio, nel 79. Quando, dopo che il ragazzo fu fermato con altri in un casolare abbandonato, presi a “fare esplosioni”, (Valerio scontò 7 mesi di prigione, n.d.r.), arrivò una perquisizione a casa vostra: tra l’altro requisirono un dossier di nomi, indirizzi e fotografie in cui Valerio schedava nomi di politici, di fascisti, di uomini delle forze dell’ordine.
«Sì, questo dossier- che mio marito ha sempre ritenuto il movente dell’omicidio- fatto di tantissimi fogli è stato poi consegnato al magistrato Mario Amato più sottile di un quaderno, con tutti i fogli stracciati, tante pagine strappate. Anche io credo che lì dentro c’erano dei nomi importanti, Valerio deve aver pestato i piedi a qualche pezzo grosso della politica…..Quando abbiamo chiesto ai giudici copia del dossier, ci è stato negato perchè coperto da segreto istruttorio ».

Poi c’è stato lo scontro in Piazza Annibaliano, in cui Valerio ha perso la borsa di Tolfa con il tesserino del ministero dell’Interno, su cui c’era l’indirizzo di casa.
«Quel giorno Valerio, per salvare un compagno che stava prendendo una mattonata sul petto, dette una coltellata- in realtà un colpo di temperino- a Nanni De Angelis, un fascista. Che dopo la morte di Valerio ebbe il coraggio di venire da me e mio marito a dire che non era stato lui dopo ad ammazzarlo, e io gli credo: l’aggressore che ho visto a casa non aveva una corporatura gigantesca come quella di De Angelis».

E poi vennero molti altri morti, in quel 1980: il giudice Mario Amato, lo stesso De Angelis…Ma nel libro che lei ha scritto, Carla, c’è altro: c’è il racconto quasi disperato di una madre che in quegli anni, come la maggior parte delle altri madri, non aveva capito nulla di quello che stava facendo il figlio. E non se lo perdona.

«Ma certo. Noi non avevamo capito fino a che punto Valerio fosse invischiato nella politica. Vedevo a casa tante fotografie di palazzi e chiedevo “Valerio che sono ’sti palazzi?” , lui parlava di persone sfrattate che loro aiutavano a ritrovare una casa…mi infinocchiava così. Io lo vedevo sempre un bambino. Del resto non aveva neanche 19 anni quando è morto: il giorno del suo compleanno è stato quello del suo funerale».

Oggi c’è una palestra intitolata a Valerio, una strada a Roma e una a Napoli, lei è ancora circondata dall’affetto degli amici di Valerio che vengono a trovarla quasi ogni giorno. E il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che pure quegli anni li ha vissuti anche lui da “militante politico”?

«Io sono sopravvissuta a tre tumori e ormai sono cattiva come la peste. Non ho mai partecipato a talk-show in tv, ho fatto pochissime interviste. Con Alemanno sono continue discussioni: in una intervista ho detto che, all’epoca, Alemanno era un picchiatore di Talenti. Lui mi ha telefonato, pardon, incazzatissimo, e mi ha detto “io non ero fascista e Talenti non so neanche dov’è “. E bravo il sindaco di Roma!».

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