sabato 23 gennaio 2010

Giustizia: dimezzare detenuti, invece di raddoppiare le carceri

di Piero Sansonetti

Il governo ha deciso di rispondere all’emergenza carceri costruendone di nuove. Nessuno si è scandalizzato. L’opposizione non ha nulla da obiettare, tranne che sulla trasparenza degli appalti. I giornali neppure. In che cosa consiste l’emergenza carceri? Nel fatto che le celle sono stipate, i servizi scarsi, le condizioni di vita dei reclusi inaccettabili, la privazione della libertà insopportabile. E questo provoca gravissimi disagi, violazione dei diritti umani e un numero altissimo di suicidi: più di uno alla settimana. Per una popolazione di 60mila persone è una cifra altissima: in proporzione è come se a Roma ci fossero 60 o 70 suicidi a settimana. Dieci al giorno.

Il Partito Radicale, per esempio, da anni denuncia questa situazione. Poco prima di Natale è arrivata anche la denuncia drammatica di monsignor Tettamanzi, cardinale di Milano, dopo una visita a San Vittore. Ha detto: "Non me l’aspettavo, è un inferno, è indecente, è disumano". Il governo ha stabilito che il problema di fondo è il sovraffollamento (e l’opposizione concorda) e ha deciso di costruire circa 25mila nuovi posti letto. Naturalmente è vero che il sovraffollamento è un problema, anche se poi c’è una questione molto più grande: riguarda il funzionamento delle carceri, il grado di riduzione delle libertà individuali, la qualità della vita, il sistema delle repressioni; tutte cose non legate esclusivamente al sovraffollamento, ma piuttosto frutto di una mentalità autoritaria, punitiva, che è dominante nella nostra cultura giuridica.
Ammettiamo, per un momento, che davvero l’unico problema sia lo squilibrio tra spazi a disposizione e numero di carcerati. Come si risolve? Raddoppiando le carceri (o quasi), come propone il governo? Oppure dimezzando i carcerati? È possibile dimezzare (o più che dimezzare) il numero dei carcerari? I dati ufficiali ci dicono di sì.
Basterebbe ridurre le carcerazioni preventive - che sono il vero motivo del sovraffollamento, visto che la grande maggioranza dei detenuti non ha ricevuto la condanna definitiva - e depenalizzare i reati minori. In particolare basterebbe depenalizzare i reati relativi al consumo e al piccolo spaccio di droghe, dal momento che la maggioranza dei detenuti - in carcere preventivo o definitivo - è dietro le sbarre per piccoli reati.

Se si facesse così, cioè si puntasse alla riduzione della popolazione carceraria, si potrebbero ottenere ottimi risultati senza alcuna spesa. Anzi, con un forte risparmio di denari da parte dello Stato. I soldi risparmiati potrebbero essere investiti sia per il miglioramento della vita carceraria, sia per il reinserimento nella società e nel lavoro di quelli che lascerebbero il carcere. Non è una ricetta rivoluzionaria: è solo buonsenso. Potremmo addirittura usare una parola più nobile: è una soluzione riformista. Sembra che tutte le forze politiche italiane siano affascinate dal "riformismo". Sarebbe ora che qualcuna iniziasse a capire cos’è il riformismo. Raddoppiare le carceri, non è riformismo: è l’attuazione di una soluzione reazionaria, sia sul piano politico che su quello culturale e morale. È un rinculo verso una società autoritaria. Cioè, il contrario del riformismo classico, liberale o socialista.

È possibile che un giorno le forze politiche italiane si decidano ad accettare questo punto di vista riformista? È molto difficile che ciò avvenga. Perché? Per la semplice ragione che negli ultimi 15-20 anni l’opinione pubblica italiana e la cultura delle sue classi dirigenti si sono molto spostate su posizioni repressive e antigarantiste.
Come è successo? Con il procedere di due fenomeni paralleli: la sinistra, sul piano politico, ha stretto un patto di alleanza con la magistratura e persino con settori della polizia, rovesciando il proprio asse culturale. Per la verità la sinistra comunista, in parte permeata dai residui dello stalinismo, non aveva mai posseduto una grande cultura garantista. Mi riferisco al Pci. Che ha sempre avuto, nelle sue correnti maggioritarie, una tendenza legalitaria e "d’ordine".

Con una correzione però, piuttosto netta, maturata negli anni Ottanta, dopo il fallimento dell’unità nazionale e la svolta a sinistra di Berlinguer. In quel periodo il Pci si trovò a guidare la battaglia per alcune riforme molto importanti che modificarono profondamente la vita e le regole del carcere. Mi riferisco soprattutto alla legge Gozzini, che per la prima volta sradicava l’idea che il carcere fosse un luogo semplicemente di punizione e di vendetta. E tentava di affidargli una funzione sociale, umana. Gozzini era un parlamentare cattolico eletto nelle liste del Pci.
Comunque la cultura garantista era sempre stata un pilastro dell’ideologia dell’estrema sinistra da un lato e della sinistra socialista dall’altro. Entrambe nemiche giurate - proprio nel loro Dna - delle istituzioni totalitarie e in generale del potere giudiziario.

Negli ultimi quindici anni le cose sono cambiate radicalmente, anzi si sono rovesciate. Il rapporto strettissimo, quasi di identificazione, tra lotta politica e azione giudiziaria è diventato un elemento di identità della sinistra. E ha finito per condizionare non solo la sinistra moderata ma anche vasti settori "sovversivi". Anzi, per uno strano paradosso, con il fenomeno dei girotondi (2001-2003) e negli anni successivi col santorismo e col travaglismo, il cosiddetto giustizialismo ha finito per travolgere la sinistra "sovversiva" più ancora che quella moderata.
Questo è il primo dei due fenomeni. Il secondo fenomeno - di tipo opposto - è stato la rottura dell’alleanza tra magistratura e destra. Che però non ha prodotto un nuovo garantismo di destra - che in qualche modo compensasse la riduzione del garantismo di sinistra - ma semplicemente una forma di difesa del ceto politico. Il cosiddetto garantismo della destra è "selezionato" e ad personam.

Non ha neanche tentato di produrre leggi che attenuassero le pene e scalfissero le politiche repressive, ma si è attestato sulle leggi ad personam, o sulla ricerca delle immunità, accompagnando e compensando queste iniziative con una miriade di nuove regole e leggi che inasprivano le pene, riducevano le libertà, tiranneggiavano gli autori di piccoli reati o disobbedienze. Basta citare la Bossi-Fini, la Cirielli, le norme contro la recidiva, la legge contro gli spinelli, i decreti contro gli immigrati, e poi le miriadi di ordinanze cittadine per punire i mendicanti, o gli studenti, o gli avventori dei bar.

La concorrenza tra destra e sinistra sul piano della giustizia è diventata una corsa all’esaltazione dell’ordine pubblico e della repressione. La parola d’ordine è: certezza della pena. Nessuno si occupa di certezza della colpa. Persino nel dibattito che si è aperto sulle nuove norme per il "processo breve", nessuno ha voluto polemizzare sul fatto che quelle norme escludevano centinaia di reati e perciò erano delle cattive norme. Selettive e perciò ingiuste. Non lassiste e perciò ingiuste. La discussione, surreale, è avvenuta sul fatto che fossero o no sufficienti 8 o 9 anni per processare e punire il premier. Anche in questo caso la polemica politica ha finito con lo spingere ancora di più l’opinione pubblica verso l’idea che una buona società e una buona politica si fondano sulla capacità di impartire buone punizioni.

Qui, forse, è il punto vero. Può una società che punta a migliorare se stessa, a diventare più moderna, a sviluppare l’idea di libertà, avvitarsi su se stessa e ridurre il fine dello Stato all’obbligo della punizione? Dico ancora di più: che civiltà è una civiltà che considera la punizione un fatto di equità, di giustizia, addirittura un principio di regolazione della vita pubblica e delle relazione tra persone e gruppi?

Penso che sia la domanda delle domande. Nel senso che da come si riesce a dare una risposta dipende il futuro che si delinea per la nostra società. Nella seconda metà del Novecento erano stati fatti passi avanti molto grandi verso l’idea che la repressione e la punizione fossero comunque aspetti negativi del potere. Purtroppo stiamo assistendo a una inversione di tendenza. A un ritorno a valori e schemi che erano propri della prima metà del secolo scorso, cioè del periodo delle grandi dittature.
Non credete che la battaglia contro l’idea che la punizione sia un caposaldo dello stato di diritto sia la grande battaglia che deve combattere la sinistra libertaria? (Se esiste la sinistra libertaria...). Affrontandola con il coraggio di scontrarsi con gran parte dell’opinione pubblica e della stessa opinione pubblica di sinistra. E non credete che un punto di partenza sia il carcere? Io penso di sì. Il carcere è l’emblema della repressione, della punizione, della prepotenza dello Stato, della "presunta società giusta".

Finché esisterà e sarà considerato un bastione della convivenza civile, è difficile che la nostra civiltà possa fare dei passi avanti. L’abolizione del carcere, o la sua riduzione a fatto assolutamente d’emergenza e marginale, è un grande obiettivo. Molto meno utopistico di quello che si pensa. E molto più essenziale di quello che può sembrare. È un punto di partenza, credo, non un obiettivo lontano e secondario.

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