venerdì 8 gennaio 2010

Detenuto morì impiccato alla Dozza. Ora il ministero deve risarcire la madre.

Fonte: Corriere di Bologna, di Amelia Esposito 04/01/2010

Il 21 febbraio 1996 le agenzie battevano la notizia dell’arresto di un giovane franco-tunsino, Georges Alain Laid, colpevole di aver rubato nel negozio di scarpe Gianfranco Pini, nel centro di Bologna. Sette mesi dopo, il 24 settembre, il nome di quel «ladro qualunque» riappariva nel circuito delle agenzie di stampa e, da lì, rimbalzava subito sui giornali, in radio e in tv. La notte precedente, Georges Alain Laid era stato trovato morto alla Dozza. Impiccato con la giacca del pigiama alla maniglia del bagno della cella di isolamento dove era stato rinchiuso in seguito a una zuffa con altri detenuti. Ancora sei giorni e sarebbe tornato in libertà. Oggi, 13 anni dopo, l’amministrazione penitenziaria è stata condannata a pagare 100 mila euro (con la rivalutazione e gli interessi dal ’96) per quella morte.

IL RISARCIMENTO - Il risarcimento stabilito dal Tribunale di Bologna e confermato dalla Corte d’Appello per i «danni morali ed esistenziali» subiti dalla madre di Georges Alain. Una donna combattiva, che ha vinto la sua battaglia. Per i giudici, almeno in sede civile, il carcere è responsabile del decesso di un suo detenuto, anche se dovuto a suicidio: un principio affermato per ora soltanto in un’altra sentenza pronunciata di recente a Milano. La vicenda della morte del 31enne francese di origini tunisine ebbe una grande eco all’epoca. Divenne un caso politico, con la senatrice Daria Bonfietti che presentò un’interrogazione parlamentare per denunciare quello che appariva come un «suicidio annunciato». Se non un omicidio.

L'INCHIESTA - Fu per quest’ultima ipotesi che la Procura aprì un’inchiesta. Tre guardie penitenziarie vennero arrestate con l’accusa di voler coprire l’assassino e di averlo aiutato a mettere in scena un finto suicidio. Ma la verità su come andarono le cose quella notte alla Dozza non fu mai accertata: i periti dell’accusa e quelli della difesa arrivarono a conclusioni opposte, i primi affermarono che Georges Alain venne ucciso i secondi che si suicidò. Alla fine, proprio per l’impossibilità di stabilire la dinamica, il pm Franca Oliva chiese l’archiviazione e il gip Aurelia del Gaudio la accolse. Ma la madre del giovane detenuto, assistita dagli avvocati Alessandro Gamberini e Gianfranco Focherini, non si è data per vinta. L’opposizione all’archiviazione venne respinta, ma la causa civile andò avanti. E, per due volte, la parte offesa ha avuto ragione: nel 2004, con la sentenza di primo grado, e nell’ottobre scorso, con quella d’appello. Perché — è il cuore della motivazione — sia in caso di omicidio che di suicidio «la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria sussiste comunque in virtù del rapporto che a essa lega funzionari e agenti della penitenziaria».

LA RESPONSABILITA' - È una responsabilità oggettiva quella del carcere (dunque del Dap). Vediamo perché: vero è che in sede penale le guardie sono state prosciolte, ma in ogni caso, secondo i giudici civili, la vigilanza non fu sufficiente e il detenuto non sarebbe dovuto restare solo, in isolamento. Questa fu, secondo i magistrati, una decisione scellerata per tante ragioni: perché Georges Alain «era solito procurarsi traumi ripetuti», perché «pochi giorni prima della morte gli era stato diagnosticato uno stato ansioso-depressivo per la morte del fratello», perché questo stato «era caratterizzato da idee autosoppressive». Per tutti questi motivi, i medici avevano segnalato «la necessità di sottoporlo ad attenta sorveglianza» e di «tenerlo in cella con altri detenuti». Non solo, il giovane era tossicodipendente e, poche ore prima della sua morte, venne accertato che era ubriaco. Altro che «evento imprevedibile», come ha affermato più volte il Ministero.

IL SINDACATO - Il Dap ha fatto ricorso in Cassazione, ma intanto il Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria) esprime preoccupazione. Il timore è che l’amministrazione penitenziaria voglia rivalersi sulle guardie, che sono state prosciolte da ogni accusa. «Ciò sarebbe intollerabile, viste le condizioni disagiate in cui è costretto a lavorare il personale», spiega il segretario generale Giovanni Battista Durante.

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