lunedì 8 febbraio 2010

Giustizia: carceri aperte ai giornalisti; ecco un primo risultato

da: Il Manifesto

No, checché ne dica la pubblicità, non basterebbero i mobili Ikea a rendere più familiare e accogliente una cella del supercarcere di Sulmona, conosciuto ai più con la triste - e, secondo il direttore, falsa - nomea del "carcere dei suicidi".
Dietro le sbarre fitte colorate di verde a cui stanno aggrappate le mani di due ragazzi napoletani, dal linguaggio incerto e i denti fradici tipici dei tossicodipendenti, lo spazio è angusto e tappezzato di foto di ragazze nude. Non è facile per un giornalista riuscire ad entrare fin dentro i reparti di detenzione, di sicuro qui negli ultimi anni è la prima volta che accade. Dopo l’appello lanciato dal Manifesto e da Antigone che ha raccolto oltre 900 firme, dietro autorizzazione del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria), il direttore Sergio Romice ha concesso l’apertura dei pesanti cancelli che portano dentro le sezioni di media sicurezza.
Nella cella, un letto a castello con due posti occupa lo spazio pensato per accogliere una sola persona, tre metri per tre e in un angolo un piccolo bagno con lavabo e wc. Non è una stanza, è una gabbia con finestra (che almeno restituisce lo splendido paesaggio del monte Morrone innevato) chiusa per 21 ore al giorno: per muoversi rimane solo una fetta di pavimento larga un metro e poco più, lungo il letto. E i due ragazzi sono pure fortunati: nella sezione "internati" - dove sono rinchiusi coloro che, scontata la pena, sono stati considerati dal magistrato di sorveglianza "socialmente pericolosi"e quindi sottoposti a un nuovo regime detentivo da scontare nella più grande Casa lavoro d’Italia - hanno dovuto aggiungere una terza branda. Per mangiare si può solo stare in piedi davanti alla porta. Ma i due ragazzi napoletani si ritengono fortunati anche perché sono passati per Poggioreale: "Lì in una cella come questa ci stavamo in quattro".

Sul corridoio due detenuti trascinano a braccio un loro compagno: lo riportano in cella dopo averlo accompagnato all’infermeria per una visita. Non ce la fa a camminare, "non mangia" bisbigliano, "è in sciopero della fame". Il direttore e la responsabile dell’area trattamentale-educativa, la dottoressa Fiorella Ranalli, sminuiscono: succede spesso, dicono, che un detenuto si metta in sciopero della fame perché vuole parlare con un magistrato, come in questo caso, o per molte altre richieste. "Nulla di grave", il detenuto sta bene, assicurano. Solo una volta, tanti anni fa, c’è stata una vera e propria rivolta dei carcerati. Ma il clima è teso, come dimostra la protesta rumorosa inscenata all’indomani dell’ultimo suicidio, quello di un ragazzo di 28 anni di Villa Literno che si è impiccato nella sua cella all’inizio di gennaio. Un altro ci ha provato pochi giorni dopo. In dieci si sono tolti la vita, tra queste mura, negli ultimi quindici anni, quasi tutti morti impiccati. Tra loro anche la direttrice del penitenziario, Armida Miserere, che il 19 aprile 2003 si sparò un colpo di pistola alla testa, e il sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini, che in stato di arresto venne trovato nella sua cella il 16 agosto 2004 soffocato da un sacchetto di plastica stretto alla gola da lacci per le scarpe. Anche questa volta "il carcere si è mangiato un altro ragazzo", commenta amaro un ergastolano al lavoro nella falegnameria della Casa lavoro. "Non ce l’ha fatta - aggiunge - si è messo a "castellare", a pensare, come diciamo noi, e questo non si fa: in carcere si pensa solo al presente, si vive giorno per giorno".

Doveva essere una prigione modello, il supercarcere di via Lamaccio, una struttura complessa tutta maschile con bracci di media, alta, e massima sicurezza, una piccola sezione per arrestati e la Casa-lavoro composta di una sartoria, una pelletteria, una falegnameria, una rilegatoria, un laboratorio dove si costruiscono bambole e uno per la lavorazione dei confetti, il prodotto dolciario di Sulmona più esportato nel mondo. Sette circuiti penitenziari in tutto. Nelle 250 celle, costruite originariamente come singole, oggi vivono 485 detenuti, quasi tutti provenienti dal Sud, praticamente nessun abruzzese. Il 15% sono immigrati. Tra i detenuti con disagi psichici 140 sono in terapia psichiatrica; tra i tossicodipendenti 80 sono in trattamento al Sert, sette o otto assumono metadone. Molti i sieropositivi, qualcuno è malato di Aids, ma condividono le celle con gli altri: "Nessuna ghettizzazione", spiegano. Almeno 70 sono gli ergastolani, molti mafiosi e camorristi. I loro parenti vengono da lontano, se possono e se sono muniti di automobile, perché raggiungere il carcere con i mezzi pubblici non è proprio agevole. Quando li incontrano, nella saletta colloqui, per quattro volte al mese, sono costretti alla distanza fisica da un muretto divisorio non regolamentare secondo le nuove norme del Dap. Per abbatterlo, però, "mancano i soldi", è la giustificazione.

La Casa-lavoro, l’unica rimasta in Italia assieme a quella di Saliceto San Giuliano di Modena (Castelfranco Emilia e Favigliana recentemente sono state ridotte, malgrado gli "internati" in Italia siano quasi 1600), in venti anni di gestione non ha mai superato i 50, 70 reclusi al massimo. Prima riusciva a dare lavoro a tutti, mal pagato ma a tutti. Oggi invece, dopo l’impennata dei provvedimenti di carcerazione per i soggetti ritenuti "socialmente pericolosi", ne ospita 200.
Non tutti riescono ad avere un lavoro, anche se hanno la priorità perfino sugli ergastolani, e la turnazione è stata aumentata al massimo per poter distribuire maggiormente le misere paghe (dai 50 ai 400 euro al mese, i più pagati sono i cuochi). D’altra parte è impossibile, in un territorio depresso come questo, con una disoccupazione ufficiale superiore al 30%, e dove le fabbriche hanno chiuso una dopo l’altra negli ultimi anni, non prima però di aver attinto a ogni tipo di fondi per il Mezzogiorno.

Così per oltre la metà dei carcerati di Sulmona, senza occupazione, la prigione è solo un parcheggio, senza alcuna progettualità di vita. E a giorni dovrebbero arrivare da Napoli altri 180 "internati". Dove li metteranno e a fare cosa, non si sa: già adesso c’è una doccia ogni 50 detenuti (una ogni 66, nella sezione "internati"), e negli ultimi tempi l’acqua calda scarseggia perché, spiegano, stanno aspettando i fondi per adeguare i servizi all’attuale sovraffollamento. La mancanza di spazi e di personale costringe all’apertura delle celle solo per due ore d’aria e due di socializzazione al giorno (anche se una circolare del Dap imporrebbe almeno otto ore di "uscita" giornaliere). Il personale turnista di polizia penitenziaria, infatti, è carente, come in ogni carcere italiano: secondo la pianta organica in servizio dovrebbero esserci almeno 330 agenti, ce ne sono 220. Un lavoro, quello del secondino, talmente stressante che ogni volta che si presenta l’occasione di elezioni amministrative, a decine scelgono di candidarsi e usufruire così del congedo straordinario di 45 giorni. Succederà anche alle prossime elezioni provinciali di marzo, e l’organico andrà sotto di altre 30-40 unità. Poi, ci sono due medici che visitano 60-70 persone al giorno, uno psichiatra per 60 ore mensili (visita tre volte a settimana) e uno psicologo per 43 ore mensili. Il Sert interno, invece, si avvale di due psicologhe presenti qualche ora al giorno dal lunedì al venerdì. Solo alcuni medici specialisti visitano all’interno del carcere (dentisti, dermatologi). Per le altre patologie occorre fare richiesta per una visita esterna. E visto che la sanità in carcere dipende dalle Regioni, in Abruzzo va da sé si adeguerà al livello decisamente scadente. I quattro assistenti sociali inviati dall’Ufficio esecuzione penale, poi, si devono occupare anche del carcere di Avezzano e di quello dell’Aquila, e oltre all’intramurario devono seguire anche coloro che stanno scontando una pena alternativa sul territorio provinciale.

La soluzione, però, secondo il nuovo "Piano carceri" governativo sta nel costruire una nuova struttura che affianchi quella esistente: è già prevista. Mentre l’idea del nuovo commissario straordinario Franco Ionta per lenire la solitudine dei carcerati e prevenire i suicidi, è quella di istituire una "unità di ascolto" composta di agenti penitenziari che per sei ore al giorno usino la parola per tentare di alleviare le sofferenze delle anime recluse.
E invece, qui, tutti - detenuti e operatori, agenti e i pochissimi volontari che il territorio offre - chiedono quasi una sola cosa: "Lavoro". Dentro e fuori il carcere. "Una volta il target della sezione "internati" era costituito soprattutto da condannati per reati di stampo mafioso - racconta la dottoressa Ranalli -. Ora è cambiato tutto, perché quelli considerati "socialmente pericolosi" sono sostanzialmente coloro che danno fastidio alla società: disagiati psichici, tossicodipendenti, senza casa e disoccupati". Dunque, opportunità lavorative e risorse per realizzare progetti come quello di "giustizia riparativa" che il direttore Romice sta tentando di mettere su con gli enti locali ma che stenta a decollare per mancanza di fondi. E "rivedere le norme che determinano il profilo della pericolosità sociale", come spiega Mario, ergastolano di Taranto, capo d’arte in sartoria, chiamato "il sindacalista". Per Mario la prima legge da rivedere è la Gozzini, per poter aumentare il ricorso alle pene alternative.

"Appena entrano si procede con uno screening psicologico per cercare di prevenire i tentativi di suicidio - aggiunge Ranalli - ma la prima cosa che chiedono è di essere occupati. Non solo per passare il tempo in maniera congrua e costruttiva, ma anche per non gravare sulla famiglia. Perché la detenzione, altrimenti, da individuale diventa di tutta la famiglia".

Nessun commento:

Posta un commento

yh

yh