venerdì 26 febbraio 2010

Uranio impoverito: arriva lo scudo salva-generali

“Non è punibile a titolo di colpa per violazione di disposizioni in materia di tutela dell’ambiente e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro [...] per fatti commessi nell’espletamento del servizio connesso ad attività operative o addestrative svolte...
...nel corso di missioni internazionali, il militare dal quale non poteva esigersi un comportamento diverso da quanto tenuto, avuto riguardo alle competenze ai poteri e ai mezzi di cui disponeva in relazione ai compiti affidatigli”.

Così il governo Berlusconi ha predisposto l’ennesimo scudo penale. Stavolta, peraltro, di fattispecie addirittura marziale visto che serve a mettere al riparo da eventuali rilievi penali generali, colonnelli e via scendendo. Questa nuova versione della incoercibile tendenza all’impunità dell’esecutivo è contenuta nientemeno che nel decreto di proroga delle Missioni internazionali (articolo 9 comma 4) varato il 1 gennaio e ora in corso d’approvazione in Senato dopo l’ok della Camera. Curiosamente a Montecitorio le opposizioni, pur avendo criticato con parole di fuoco il comma “salva-generali”, hanno poi votato a favore. “Il governo fa carta straccia dei diritti di salute dei militari, compresi quelli che svolgendo il proprio lavoro hanno perso la vita o hanno visto compromessa la propria salute per le patologie connesse all’uso di sostanze nocive, come l’uranio impoverito”, hanno sostenuto ad esempio i deputati Pd Donatella Ferranti, Jean Leonard Touadì e Rosa Calipari. Di più, questo “è un grave colpo di mano nei confronti di migliaia di vittime (per l’Associazione Vittime Uranio sono 216 morti e oltre 2500 i malati, e si tratta di dati parziali!)”. Questo comma, infatti, disattiva le leggi in materia di sicurezza sul lavoro, tutela dell’ambiente e della salute nel corso delle missioni internazionali e sembra pensato per casi come quello della contaminazione da uranio impoverito, sostanza contenuta negli armamenti americani e britannici usati ad esempio nella ex Jugoslavia, dove i nostri soldati – a differenza dei colleghi Usa e Gb – agirono senza alcun dispositivo di protezione. Ora però le sentenze di risarcimento concesse dai giudici civili alle vittime e ai loro familiari cominciano ad arrivare: il ministero della Difesa non ha tutelato i suoi dipendenti, hanno scritto le toghe di Roma a proposito di un caporalmaggiore di Lecce morto nel 2005. Il Tribunale di Firenze, nel dicembre 2008, ha sostenuto la stessa cosa anche per la missione in Somalia: il ministero “non ha disposto l’adozione di adeguate misure protettive… nonostante fosse sotto gli occhi dell’opinione pubblica internazionale la pericolosità specifica di quel teatro di guerra, e nonostante l’adozione da parte di altri contingenti di misure di prevenzione particolari”. Oggi, con questo comma infilato alla chetichella in un decreto che è quasi obbligatorio approvare in fretta, si tenta di deresponsabilizzare i vertici delle Forze Armate: “Si tratta di una norma vergognosa e anticostituzionale – sostengono le associazioni delle vittime – un tentativo di dare un colpo di spugna alle responsabilità di chi ha inviato i nostri militari all’estero senza informarli dei rischi” e “di chi non ha adottato le norme di protezione e di chi non le ha fatte rispettare”. Non solo. D’ora in poi nelle missioni di pace all’estero, dal Libano al Kosovo, alcune migliaia di lavoratori italiani – militari e civili – non avranno pieno diritto alla salute e alla sicurezza. Per legge.

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