domenica 28 febbraio 2010

Immigrazione: Cie di Lamezia Terme girone dantesco dal vivo

Il Manifesto

Migranti rinchiusi alla bell’e meglio in spazi da galline, in attesa del rimpatrio. Senza poter far nulla, se non vegetare o ribellarsi. In tanti sono passati anche per il carcere, ma qui sono costretti a rimpiangerlo. La storia di Mohamed, commerciante ambulante con moglie e due figli, senza più permesso di soggiorno dopo 20 anni.
Più che un centro per immigrati, ha tutta l’aria di un girone dantesco dove coabitano fantasmi rabbiosi senza speranze e senza documenti, ingabbiati in spazi angusti e svuotati di ogni energia vitale, se non quella che serve per inscenare violente rivolte contro tutto e tutti, dove tutto il distruttibile viene distrutto.

La vigilanza racconta di cessi sradicati dal pavimento e frantumati fragorosamente a terra, lenzuoli infiammati con fiammiferi e materassi utilizzati come spargi incendio, porte sventrate con calci e grate attaccate con spranghe, rocambolesche fughe dai tetti e perentori inseguimenti. Ma a fianco delle prepotenze sugli oggetti, permangono gli autolesionismi: labbra cucite con ago e filo in segno di protesta, drammatici scioperi della fame, braccia lacerate con coltelli, lingue dilaniate con lamette da barba.
Il girone infernale è il Cie di Lamezia Terme, una palazzina orwelliana circondata da barriere metalliche che si innalzano prepotentemente al cielo per stroncare sul nascere qualsiasi fantasia di fuga. Nella recente indagine sui Cie italiani, Medici senza frontiere ha definito il centro di Lamezia, insieme a quello di Trapani, il peggiore d’Italia "perché totalmente inadeguato a trattenere persone in termini di vivibilità". Msf ha invocato la chiusura immediata del centro.

Un auspicio portato avanti anche da Gianni Speranza, il sindaco di Lamezia: "Sono anni che chiediamo ai ministri dell’interno di avviare una trasformazione della struttura da Cie a centro di accoglienza. Avviammo una progettazione concreta con l’ex viceministro dell’interno Minniti, ma il piano non è stato portato avanti da Maroni".
Raggiungere il centro è un’avventura. Dopo le pratiche burocratiche tra prefettura e ministero dell’interno per ottenere l’autorizzazione ufficiale alla visita, c’è l’ardua impresa di trovare l’ubicazione del Cie, arrampicato in una sperduta collina d’uliveti nella frazione di Pian Del Duca, un luogo sconsolato e marginale che sfugge anche all’immaginario collettivo dei lametini. Al solo pronunciare la parola "Cie" molti passanti cadono dalle nuvole; altri, più volenterosi nel fornire informazioni, si sforzano di indicare un luogo, ma si arrendono: "Ho sentito dire che c’è un posto dove mettono i clandestini, ma sinceramente non saprei dirle dove si trova esattamente".

Alla fine, dopo un excursus bucolico tra le campagne dell’hinterland lamentino, la struttura si staglia davanti agli occhi come una temibile fortezza. Ad accogliermi c’è l’ispettore Sergio Carino, due agenti di polizia e Raffaello Conte, presidente della cooperativa Malgrado Tutto, gestrice del centro. Prima di entrare, la consegna del cellulare è d’obbligo: niente foto o riprese all’interno. Dopo due chiacchiere informative sul centro, l’ispettore e un agente di polizia fanno strada verso l’ingresso alla palazzina che, attualmente, ospita 55 detenuti, cinque dei quali provenienti da Rosarno.
L’entrata è un dedalo di angusti passaggi militarizzati tra ferro e acciaio da cui traspare la vera essenza del Cie, una vera e propria gabbia di indigenza umana, surreale zoo nel quali i prigionieri (rinchiusi solo perché stranieri) sono implacabilmente serrati tra metalli, lucchetti, serrature, mandate di chiavi, labirinti di sbarre.

I "prigionieri", riuniti a grappoli nel minuscolo ed unico cortile che hanno a disposizione, appaiono inizialmente sulle loro. Ma basta un breve scambio di parole e la loro timidezza si trasforma in denuncia, in frenesia di raccontare la drammaticità del luogo nel quale sono costretti a vivere. Le prime accuse, pronunciate all’unanimità, sono già abbastanza significative: "Sapevano che sarebbe venuto un giornalista in visita e ieri hanno ripulito tutto il centro: i corridoi, le stanze, il cortile, le pareti. Fino a ieri era uno schifo, un vero porcile".
Incoraggiati dal taccuino che comincia a riempirsi di appunti, i detenuti incalzano la scrittura: "Te lo dico sinceramente tuona una di loro il carcere è cento volte meglio di questo posto. È più spazioso, ci sono più diritti, i letti sono comodi, il bagno è dignitoso". Effettivamente, lo spazio è risicato. Tra le carenze più pesanti contenute nel rapporto di Msf c’è l’inadeguatezza dell’unico spazio esterno, "un cortile di circa 200 metri quadrati, inutilizzabile quando piove e d’estate quando vi batte il sole".

Tra le altre lacune, Msf punta il dito, oltre che su un’inadeguata assistenza sanitaria, su "l’assenza di attività ricreative" e sul servizio di mediazione culturale che, "prestato da un unico operatore, appare insufficiente per rispondere alle esigenze di una popolazione variegata come quella del centro". Ma il problema sbandierato con più fervore dai detenuti resta l’assenza di vestiario (molti vivono con gli stessi luridi pantaloni da oltre un mese) e quello relativo ai bagni, assolutamente inospitali e indegni, i cui spazi sono strettissimi e fatiscenti, l’odore nauseante, la visuale stomachevole, i cessi inesistenti. "Abbiamo attivato un progetto per la ricostruzione e la riqualificazione dei bagni", tiene subito a precisare l’ispettore Carino.
Il tour guidato (e rigorosamente accompagnato) continua nelle camere. Ad ogni passo, i detenuti lanciano denunce e lamenti, supplicano di ascoltarli e cercano nei miei occhi uno sguardo di comprensione. Le camere sono dotate di televisione e riscaldamento, ma per gli ospiti del Cie sono dettagli privi di significato: "Guarda questi materassi ruggisce Hamami, 36 enne marocchino Sono vecchissimi, piegati dappertutto, è impossibile non svegliarsi col mal di schiena". Hamami è uno dei più disinvolti, esuberante nel protestare, squillante nei suoi toni quasi collerici.

È in Italia dagli anni Novanta e adesso, terminati i sei mesi al Cie, dovrà rimpatriare entro 5 giorni dal rilascio, pena (così dice la legge) quattro anni di galera. Hamami è arrivato al Cie dopo due anni di carcere (circa la metà dei detenuti del Cie ha scontato qualche mese di carcere): "Sono stato accusato perché avevo un pezzo di fumo e perché in tribunale mi sono ribellato alla legge, che si accanisce maggiormente contro gli stranieri senza permesso di soggiorno. Ho 3 diplomi, so fare tutti i lavori, adesso ho la coscienza apposto e non capisco perché la conseguenza debba essere il rimpatrio. Non è giusto, appena esco da qui, fuggo in un altro paese europeo, non voglio più saperne dell’Italia".
Ma il vero dramma dei Cie non sono le condizioni di vita al suo interno, bensì l’inesorabile destino che attende i detenuti. Molti di loro sono in Italia da oltre vent’anni, hanno moglie e figli italiani ma sono condannati al rimpatrio a causa di tanti piccoli cavilli burocratici che, per quanto coerenti con la legge, appaiono disumani se rapportati alle storie personali di ciascun immigrato. È il caso del marocchino Mohamed Farsane, in Italia da trent’anni. Mohamed è sposato con una donna marocchina e da anni gestisce una bancarella ambulante a Matera. Ha due figli piccoli, entrambi nati in Italia.

Nonostante questo, il destino di Mohamed sembra essere il rimpatrio perché attualmente non è regolare. Adesso, dopo una vita trascorsa in Italia, un lavoro regolare e due figli italiani, Mohamed è disperato: "Sto vivendo un incubo. Ho il permesso di soggiorno dall’89 ma quando la mattina del 2 febbraio sono andato a rinnovarlo alla questura di Matera, la mia città, mi hanno detto che non era possibile procedere al rinnovo. Nel pomeriggio mi hanno portato al Cie di Lamezia". Adesso Mohamed ha una paura folle: "Non voglio tornare in Marocco, tutti i miei familiari sono qui, abbiamo una bella casa, un lavoro, una vita".
Tra le motivazioni che hanno contribuito al mancato rinnovo del permesso di soggiorno, ci sarebbe il reato di contraffazione di cui Mohamed si è macchiato oltre dieci anni fa, quando, dice lui, "per sopravvivere sono stato costretto a vendere cd contraffatti". Un gesto che seppur in palese violazione della legge umanamente parlando non giustifica il rimpatrio forzato di un essere umano che, dopo trent’anni di sacrifici, si è costruito una vita in Italia e, seppur inciampando nell’illegalità, ha sempre servito onestamente il paese che lo aveva accolto.

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